ADEGUAMENTO DEGLI OBIETTIVI CURRICOLARI, DEI METODI E DEI MEZZI AI FINI DELLA DIDATTICA INCLUSIVA

di Concetta Maria Randazzo

 

Il concetto di inclusività ha una dimensione sociale perché consente allo studente diversamente abile di integrarsi in un contesto scolastico che gli dà la possibilità di un confronto con i docenti e con i compagni. La prospettiva inclusiva è basata sul riconoscimento delle differenze di ciascun alunno e sulla conseguente necessaria programmazione didattica che la scuola e la classe devono attuare perché a ciascuna differenza sia riconosciuta la piena legittimità e a ogni alunno la piena partecipazione sia al processo di apprendimento sia al contesto sociale. In questa direzione ad esempio, il MIUR ha pubblicato, nel dicembre del 2012, la Direttiva Ministeriale sui BES e, nel marzo 2013, la Circolare Ministeriale n. 8, che fornisce alle scuole le Indicazioni. Questa normativa di carattere regolamentare trova la propria fonte primaria nella legge delega n. 53/2003 e nei successivi decreti attuativi emanati l’anno successivo. Inoltre rientra ampiamente nel quadro di sviluppo tracciato a Lisbona nel programma per l’Europa 2010/20, la citata circolare relativa ai Bisogni Educativi Speciali .

L’alunno in difficoltà è occasione affinché la scuola si ripensi come strumento di successo formativo per tutti. Le discipline di insegnamento diventano il mezzo per promuovere la personalità dell’allievo in tutte le sue dimensioni. I contenuti scolastici non sono più al centro dei processi di insegnamento ed apprendimento, ma rappresentano degli stimoli utilizzabili da tutti; in quest’ottica l’insegnante curriculare e quello di sostegno lavorano in sinergia scambiandosi se necessario i ruoli.

L’adeguamento del percorso didattico del bambino con un disagio a quello della classe deve far riflettere su quale modello didattico utilizzare per agevolare l’integrazione; il modello più utilizzato è quello per obiettivi, sicuramente per le sue implicazioni positive rispetto ai processi di individualizzazione Una volta selezionato il modello, ai docenti viene richiesto di adattare gli obiettivi del disabile a quelli della classe.

Dario Ianes individua cinque livelli di adeguamento degli obiettivi in relazione alla gravità del deficit, procedendo dal meno grave al più grave[1].

Con il 1° livello – la sostituzione – l’obiettivo rimane uguale, ma viene curato solo l’uso e l’accessibilità dei codici linguistici (lingua dei segni, materiale in Braille, registrazioni audio dei testi ). Con il 2° livello – la facilitazione – si deve garantire il raggiungimento dell’obiettivo mediante l’utilizzo di tecnologie più motivanti (ad esempio software didattici) e contesti didattici fortemente interattivi e operativi (tutoring, gruppi di apprendimento cooperativo, laboratori, simulazioni etc.). Il 3° livello, invece – quello della semplificazione – richiede la modifica del lessico per ridurre la complessità concettuale, inoltre, si eseguono le operazioni di calcolo utilizzando la calcolatrice e si modificano i criteri di corretta esecuzione di un compito (consentendo più errori e imprecisioni). Nel 4° livello si ha la scomposizione nei nuclei fondanti, si identificano cioè delle attività fondanti e accessibili al livello di difficoltà di apprendimento dell’alunno. Il 5° livello, infine, intende innescare un meccanismo di partecipazione alla cultura del compito. Si cercano occasioni perché l’alunno sperimenti, anche se soltanto da spettatore, la “cultura del compito” (il clima emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, etc.). Nella vita di ogni giorno ognuno di noi partecipa ad una infinità di situazioni, pur non avendo in esse particolari competenze, ci sono settori dei quali non si sa molto, ma non per questo si esclude la partecipazione all’atmosfera culturale, ricavandone sollecitazioni importanti sul piano personale. Allo stesso modo in una classe che attua l’inclusione si verificano le medesime dinamiche.

A titolo esemplificativo si possono immaginare tre gradi di deficit:

  1. nell’ipotesi di un deficit lieve si utilizza la semplificazione (ad esempio se ipovedente basta ingrandire o evidenziare le parole – prompting),
  2. nel caso di un deficit medio si può ridurre il testo e semplificare il lessico,
  3. nel caso di deficit grave si può eliminare il testo e inserire delle immagini che il bambino può percepire.

Gli sforzi di adeguamento alle attività della classe non devono essere richiesti solo all’alunno disabile, in questi casi non si potrà, infatti, parlare di una vera integrazione; questa, infatti, richiede una serie di cambiamenti, che investono tutto il gruppo classe, capaci di consentire occasioni di collaborazione e aiuto reciproco, con la consapevolezza che questo adeguamento possa giovare a tutti. La programmazione educativa individualizzata prevede, nei limiti del possibile, lo studio di tutte le materie della programmazione di classe, differenziandole solo nel livello di complessità. Quando, però, i materiali didattici della classe non sono adatti all’alunno disabile, ci sono due possibili alternative: il ricorso a materiale strutturato oppure si utilizzano materiali non strutturati, semplificando e organizzando i medesimi materiali della classe. I primi sono rappresentati da testi specializzati, schede e giochi didattici, che hanno il vantaggio di essere costruiti nel rispetto dei principi psico-pedagogici; i secondi sono quei materiali che i docenti costruiscono per mettere l’alunno disabile nelle condizioni di poter seguire gli stessi lavori della classe. I principali tipi di materiali non strutturati sono ad esempio i cartelloni e gli adattamenti dei libri di testo.

L’azione didattica ha quindi il compito di predisporre le migliori condizioni per l’apprendimento. Tra queste, l’uso di modalità diverse di presentazione dei contenuti, detti mediatori didattici, costituisce sicuramente uno dei sistemi che l’insegnante può realizzare per migliorare le condizioni dell’apprendimento. Per mediatore didattico si intende tutto ciò che l’insegnante mette in atto per favorire l’apprendimento degli alunni. Tale concetto è stato approfondito da Elio Damiano che ha distinto quattro tipi di mediatori[2]:

  1. I mediatori attivi, che fanno ricorso all’esperienza diretta – come ad esempio l’attività di laboratorio – ma che richiedono tempi lunghi pur producendo grandi vantaggi che derivano dal contatto con il reale.
  2. I mediatori iconici, che si basano sulla rappresentazione del linguaggio grafico e spaziale (fotografie, filmati, carte geografiche). L’apprendimento mediante immagini si fonda sulle abilità percettive del soggetto ed è molto motivante anche se da solo non è sufficiente.
  3. I mediatori analogici, che cercano di rifarsi alle possibilità di apprendimento insite nel gioco e nella simulazione. Si tratta di attività ludiche di gruppo in cui i partecipanti ricreano particolari situazioni e interpretano personaggi. Bisogna, però, stare attenti ad evitare il rischio di scambiare la simulazione con la realtà.
  4. I mediatori simbolici, infine, sono quelli che si allontanano di più dalla realtà di riferimento e sono considerati i meno validi soprattutto dai sostenitori del principio dell’apprendimento diretto. La lezione frontale costituisce un esempio di mediatore simbolico ed è uno degli approcci meno efficaci soprattutto per la passività che induce presso chi ascolta.

In conclusione si può affermare che la presenza di alunni diversamente abili nelle classi costituisce un’occasione perché la scuola cambi e si ripensi come strumento di successo formativo per tutti.  Occorre precisare, però, che l’integrazione dei disabili è compito specifico della scuola, ma non esclusivo, anche se può dare un contributo decisivo perché si realizzino le condizioni fondamentali per l’inclusione.

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[1] Cfr. D. Ianes, La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i bisogni educativi speciali, ed. Erikson, 2006,  Trento.

[2] Cfr. E. Damiano, I mediatori didattici, un sistema d’analisi dell’insegnamento, IRSAE Lombardia, Milano, 1989.

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