burocrazia e corruzione*

La globalizzazione, il processo di democratizzazione e la liberalizzazione dell’informazione hanno avuto un ruolo determinante nell’aumentare la sensibilità sociale e politica al problema dei comportamenti illeciti dei burocrati; d’altro canto la crescita dell’interventismo statale e l’ipertrofia della regolamentazione amministrativa, hanno creato i presupposti alla diffusione della corruzione, della concussione e di tutti quei reati propri dell’attività amministrativa, tanto da essere riconosciuti come uno dei maggiori ostacoli alla crescita economica. La lotta ai “corrotti” in senso lato è diventata l’obiettivo prioritario per agevolare lo sviluppo economico, preservando i principi di una sana e leale concorrenza, oltre che per consentire a tutti i cittadini di veder rispettate le proprie legittime aspettative da parte dei funzionari pubblici.

La corruzione (nelle sue molteplici varianti) – che si può considerare il reato “tipico” di una società burocratizzata – costituisce una deviazione intenzionale del comportamento del funzionario pubblico dal compito di tutela degli interessi dell’amministrazione con la conseguente violazione della fiducia che lo Stato ripone in lui. Lo scostamento dagli standard connessi alla carica, per il mancato svolgimento dell’incarico o per l’averlo svolto in modo non conforme a quanto previsto dal rapporto lavorativo, non è l’unica caratteristica, né si tratta di semplice abuso di potere. L’idea di corruzione, invece, implica qualcosa in più: l’intromissione di un outsider (generalmente) privato, a cui il funzionario pubblico cede illecitamente vantaggi e riconosce arbitrariamente diritti, prescindendo dall’interesse pubblico, in cambio di contropartite di cui l’agente stesso si appropria privatamente e di nascosto.
Sotto il profilo relazionale, dunque, la corruzione è un rapporto non diadico, ma triadico in cui tra funzionario ed Amministrazione si interpone un terzo attore, destinatario dell’attività pubblica, quest’ultimo svia l’azione del primo dagli obiettivi scelti dalla seconda, modificando in tal modo la struttura d’interazione del rapporto pubblico.

La corruzione, disciplinata, dal codice penale agli artt. 318-322, può essere definita come un particolare accordo tra un funzionario pubblico e un soggetto privato, mediante il quale il primo accetta dal secondo, per un atto direttamente o indirettamente collegato alle proprie attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto. Nella sua nuova formulazione disposta dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, però il concetto di corruzione assume caratteri diversi a seconda delle modalità di consumazione del reato. La nuova disciplina ha inteso adeguare la fattispecie tipica alle nuove esigenze socio-economiche di lotta al fenomeno della corruzione a tutti i livelli.

Il delitto di corruzione, con la riforma del 2012, è stato parcellizzato e definito in più modi a seconda del soggetto attivo che commette il reato o dell’oggetto dello stesso. E’ un reato plurisoggettivo, o reato a concorso necessario, in quanto ne rispondono sia il corruttore che il corrotto. Dal punto di vista strutturale, il comportamento dei due soggetti del delitto di corruzione è sostanzialmente identico, perché un dare o un ricevere esistono sia da una parte che dall’altra. Il pubblico ufficiale riceve la dazione o la promessa e dà in cambio l’atto d’ufficio o contrario ai doveri di ufficio; il privato, da parte sua, riceve l’atto di ufficio o l’atto contrario ai doveri di ufficio e dà in cambio denaro o altra utilità.

La corruzione è un reato proprio, perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l’atto o il comportamento oggetto dello scambio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell’ufficio al quale appartiene il funzionario corrotto, nel senso che devono essere espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata da quest’ultimo. Trattasi in altri termini di reato tipicamente legato alla burocrazia, ed è necessariamente agevolato dall’estremo tecnicismo dell’attività amministrativa che consente ai funzionari pubblici di determinare in positivo o in negativo lo sviluppo di un procedimento amministrativo con “intoppi o agevolazioni tipicamente burocratici”.

Il delitto assume due forme ben definite, in relazione all’atto oggetto del mercimonio tra funzionario pubblico e soggetto privato; quando l’attività fa parte delle prerogative e delle funzioni del funzionario (quelli che nella vecchia formulazione venivano definiti “atti d’ufficio”) e quando l’attività è invece contraria ai doveri d’ufficio. La riforma ha spostato l’accento sull’esercizio delle “funzioni o dei poteri” del pubblico funzionario, consentendo la repressione del fenomeno dell’asservimento della pubblica funzione agli interessi privati, laddove la dazione del denaro o di altra utilità non è direttamente correlata al compimento o all’omissione o al ritardo di uno specifico atto, ma alla generica attività, ai generici poteri ed alla generica funzione cui il soggetto qualificato è preposto.

La riforma permette, dunque, a differenza della formulazione originaria, di punire anche i fatti di corruzione impropria susseguente attiva, che è rappresentata dall’atto del pagamento che intervenga, al di fuori di un previo pactum sceleris, dopo l’attività del funzionario che avvantaggia il soggetto privato, e che prima non era punibile. In altri termini, facendo riferimento all’esercizio delle funzioni o dei poteri, e non più allo specifico atto, la disposizione si pone quale norma incriminatrice generale dei fatti di corruzione.

Ai sensi del successivo art. 319 c.p., è prevista la punibilità del pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa. Scopo dell’incriminazione della corruzione impropria è di evitare il danno che deriva all’amministrazione dalla venalità dei soggetti ad essa preposti, venalità che, anche quando non porta al compimento di atti illegittimi, nuoce alla dignità e al prestigio dell’amministrazione medesima, poiché getta discredito e sospetto sul suo funzionamento. In tema di corruzione, l’accettazione di piccole regalie d’uso sociale può escludere la configurabilità del reato di corruzione per il compimento di un atto d’ufficio, ma non potrà mai evitare quello di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, poiché non sarà possibile sostenere e dimostrare che il regalo non abbia avuto influenza nella formazione dell’atto.

La riforma ha previsto altre forme di corruzione che rappresentano, di norma, ulteriori specificazioni delle modalità in cui si può manifestare il fenomeno corruttivo la cui conoscenza è utile per dimostrare la varietà delle modalità in cui il reato può essere commesso e la diffusione dello stesso in tutti gli ambiti dell’amministrazione pubblica e giudiziaria: sono infatti espressamente previsti la corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), l’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.), il traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), la corruzione tra privati in ambito societario (art. 2635 c.c.), ecc.

Non sempre gli atti di corruzione prevedono il pagamento della tangente; spesso, l’utilità consiste in favori, regali, finanziamenti illeciti, o clientelismo. Proprio per la sua mutevole natura, è un problema di difficile identificazione e misurazione, soprattutto quando non assume forme eclatanti, confondendosi con i tratti culturali e i comportamenti consuetudinari della popolazione.

Un ulteriore delitto della burocrazia è la concussione, prevista dall’art. 317 del codice penale, che si consuma quando un pubblico ufficiale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità. Mentre nella concussione si pone l’accento sulla costrizione e sull’induzione, nella corruzione il soggetto privato è d’accordo con il pubblico ufficiale nel dargli o promettergli denaro o altra utilità affinché quest’ultimo compia un atto del suo ufficio o un atto contrario ai doveri d’ufficio. Questa differenza è sostanziale tanto che, nella corruzione, il Legislatore ha previsto la punizione anche per il corruttore, mentre nella concussione il concusso non è punibile in quanto vittima del reato. La concussione, quindi, sembra portare a conseguenze estreme il cattivo uso del potere amministrativo e come tale viene punita in maniera più severa.

Sul piano socio-antropologico, però, è considerato più pericoloso il fenomeno corruttivo, perché indice di un sentire diffuso che porta il cittadino a ritenere “normale” quell’attività che consiste, a suo avviso, nell’ungere gli ingranaggi burocratici. E così se nel rapporto di concussione vi è il comportamento criminoso di un funzionario pubblico, che desta preoccupazione solo in considerazione del reato compiuto da un disonesto preso nella sua individualità; nella corruzione si pone l’accento sull’allarme dato da un fenomeno che incide sul tessuto sociale in maniera endemica, per cui si crea l’opinione diffusa che per ottenere un diritto – o qualcosa che non spetterebbe – occorre pagare.

Di conseguenza è principalmente necessario porre una grande attenzione alla lotta alla corruzione, la cui eliminazione può richiedere un cambiamento radicale nella struttura dello Stato e nel modo di gestire le risorse pubbliche. In questo caso però risulta evidente che le maggiori resistenze arriverebbero proprio da chi dovrebbe attuare il cambiamento (sia in sede politica che amministrativa). In tale scenario, anche il minimo tentativo di riforma può incontrare la seria resistenza dei gruppi che hanno costruito le proprie fortune sull’illegalità diffusa e persino trovare la collaborazione della popolazione, di coloro cioè che sono vittime/beneficiari del fenomeno.

Si rende necessaria, quindi, la realizzazione di interventi di persuasione morale, attraverso campagne di sensibilizzazione in grado di modificare al meglio le percezioni delle nuove generazioni, sperando che riprenda a maturare una forte e radicata avversione alla corruzione. Se questo dovesse avvenire, le politiche di riforma istituzionale, quale la citata legge anticorruzione, diventerebbero efficaci, perchè incontreranno nel tempo un reale e crescente consenso del pubblico e degli organi di governo. L’induzione di “mutazioni” nelle preferenze delle nuove generazioni è forse l’unica arma di cui si dispone in situazioni di corruzione endemica, quando i tradizionali metodi d’intervento hanno dimostrato ampiamente di essere improduttivi di effetti. Invero l’istituzionalizzazione della corruzione conduce inevitabilmente a considerazioni di carattere culturale e ideologico, per cui anni di pratiche illecite arrivano a modificare in modo evidente lo stato delle percezioni individuali e, nel tempo, ridurre il loro grado di avversione al fenomeno, consentendone il radicamento nella società.

I modelli sociali della corruzione – a differenza di quelli giuridici che, come si è visto, si basano fondamentalmente sulla diversità degli elementi oggettivi del fatto di reato – sono riconducibili al ruolo svolto dalle percezioni sociali, intese come livello d’avversione alla corruzione ed ai costi della stessa. Ogni equilibrio è associato ad una particolare struttura dei costi della corruzione, indicativa dello stato d’efficienza delle istituzioni. In particolare si possono produrre due tipi di equilibri in presenza di corruzione: quello di low bribery, caratterizzato da una bassa offerta di tangenti e dal rifiuto della corruzione da parte dei burocrati d’indole onesta, e quello di high bribery, con alta consapevolezza dei cittadini dell’efficacia e della relativa facilità della corruzione la quale, di conseguenza, viene praticata da quasi tutti i burocrati, che la ritengono “fisiologica”.

Miglioramenti istituzionali, quindi, possono produrre mutamenti nella struttura dei costi e degli incentivi alla corruzione, facilitando il passaggio ad equilibri in cui la strategia dominante è l’onestà. La logica istituzionalista, tuttavia, incontra seri ostacoli di applicazione; la riforma della normativa, che è intervenuta nel 2012, potrebbe consentire la riduzione dei livelli di corruzione, ma ciò comporterebbe costi di natura economica e politica, che, fino ad ora, ne hanno impedito o rallentano il necessario cambiamento.

Nell’ottica di un approccio sociologico, l’alternativa più efficace alla riforma legislativa sembra essere, invece, quella di un miglioramento dei modelli di disapprovazione sociale che si basino sulla “percezione della popolazione”, attraverso campagne che facciano comprendere il costo sociale della corruzione, che va ben oltre la convenienza personale. A parità di assetti istituzionali, infatti, una maggiore avversione dei cittadini alla corruzione, aumenta la consapevolezza del danno sociale da essa arrecato, facilitando il passaggio ad equilibri di low bribery con bassa incidenza del fenomeno. Anche dal lato della burocrazia diventeranno maggiormente attrattivi gli equilibri di low bribery, a causa dell’aumentata disapprovazione sociale, di un maggior rischio di ricadere nelle sanzioni penali e, quindi, della conseguente minore offerta di tangenti da parte dei soggetti privati; in quest’ultimo caso, i burocrati tendenzialmente avversi alla corruzione rinuncerebbero definitivamente alla tangente.

Effetti opposti si potrebbero produrre quando l’intervento punta ad un esclusivo miglioramento delle “percezioni a livello burocratico” (e non della popolazione come nell’ipotesi precedente). In un contesto istituzionale inefficiente, con scarsa avversione sociale alla corruzione, tutti gli utenti avrebbero convenienza ad accettare la corruzione; con la conseguenza che l’aumento della proporzione di burocrati avversi alla corruzione, non riduce il loro potere decisionale e facilita il passaggio ad equilibri di high bribery, dove gli utenti offrono tangenti relativamente più alte, permettendo ai burocrati di coprire anche i costi morali.

Su ciò forse la politica dovrebbe soffermarsi e riflettere, senza lasciarsi andare a interventi normativi puramente repressivi che, in assenza di una decisa accettazione sociale, assumono un carattere meramente emotivo. Quando l’avversione alla corruzione è solo “istituzionalizzata” (è il caso della legge italiana del 2012 che ha riformato, rendendolo più grave ed articolato, il reato di corruzione) e non coinvolge direttamente i cittadini in una prospettiva educativa, la maggiore presa di coscienza a livello politico e burocratico non produce una significativa diminuzione della corruzione, ma porta solo ad un “aumento del prezzo” di essa.

Giuseppe Motta

* articolo pubblicato su aetnanet.org il 5 ottobre 2015

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