L’eredità della pandemia

 
di Giuseppe Motta

 

Nel mio articolo “coronavirus: nulla sarà più come prima?” pubblicato il 20 marzo 2020, pochi giorni dopo l’inizio della pandemia, mi sono chiesto cosa sarebbe successo “durante” e “dopo” l’emergenza. Per quando riguarda il “durante” ponevo l’accento sul rischio dell’infodemia e sugli effetti che avrebbe prodotto. Per il “dopo” ho immaginato un paese più agile, solidale e più capace di adeguarsi alla velocità dei cambiamenti a fronte di uno spaesamento esistenziale dell’individuo che scopre che non sempre le catastrofi naturali si possono affrontare con la scienza o con la Fede. I lettori, in base alle esperienze personali, possono giudicare “a posteriori” se le previsioni erano corrette o errate.

Dopo due anni e mezzo mi sento di tornare sull’argomento per fare una riflessione non più basata su previsioni, ma su valutazioni successive ad un periodo storico tra i più delicati e traumatici dell’ultimo mezzo secolo.

In poco meno di tre anni, infatti, la salute è diventata oggetto di una politica trasformata in biopolitica, cessando di essere qualcosa che riguarda la libera decisione di ciascun individuo e diventando un obbligo da adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto. Lo stato di eccezione è dunque diventato il paradigma normale di governo che ha consentito alla politica di prendere decisioni drastiche e spesso in apparente conflitto con le libertà garantite dalla Costituzione, offrendo il pretesto per un controllo pervasivo, senza precedenti nella storia democratica, della vita sociale.

Tale clima politico e sociale ha portato i mezzi di comunicazione e la Rete ad una copertura allarmistica, quasi ossessiva, dell’epidemia. Anziché informare, esponendo ciò che in quel determinato momento era noto, ammettendo ciò che non lo era e poi discutere delle diverse scelte possibili, quasi sempre i media hanno fatto perno sulla sacralità della “scienza ufficiale”, compattando l’inconscio sociale intorno alle necessità straordinarie imposte dalla lotta senza quartiere contro un nemico invisibile, ubiquo e pericolosissimo. In tal senso la narrazione sulla “guerra” al covid-19 è servita ad aumentare la percezione nelle persone dei pericoli del virus, a giustificare la necessità di cambiamenti radicali nello stile di vita ed a sollecitare la responsabilità collettiva e il sacrificio degli individui per uno scopo comune. Il risvolto negativo di questa sensibilizzazione è stato però quello di rendere le persone più propense a preferire o ad accettare interventi legislativi e decisioni politiche tendenzialmente autoritarie. Inoltre si è diventati più dipendenti dalle emozioni e dalle sensazioni fisiche a cui si è prestata più attenzione che all’evidenza dei fatti. L’istinto ha preso inevitabilmente il sopravvento provocando inevitabilmente un crescendo di paura, ansia e depressione.

La paura e l’ansia generalizzate tendono ad uniformare gli individui nello spazio sociale con e contro gli altri ma possono diventare la forza vincolante a partire da cui creare un senso rinnovato di comunità. Per contro, la paura come collante sociale necessita sempre di un altro che sia percepito come il nemico che minaccia i confini identitari della “comunità”. “La cittadinanza si traduce in una forma di neighborhood watch: il cittadino è chiamato in prima persona a prestare attenzione agli altri sospetti, ad agire contro chi minaccia i propri confini, il proprio spazio domestico e familiare. Proteggersi per proteggere gli altri, restare a casa (spesso romanticizzando la propria esperienza della quarantena) rischiano, così, di trasformarsi in atteggiamenti morali speculari all’identificazione di un capro espiatorioi.

La pandemia ha messo in risalto una debolezza della tarda modernità individuata da Bauman nell’iperindividualismo, che non è altro che un soggettivismo esasperato per il quale ogni individuo non vede più gli “altri” come “parte di una collettività” ma come avversari o, addirittura, nemici. In tal senso si tende a sovraccaricare eticamente l’individuo di ogni responsabilità per poi nascondere le cause collettive e strutturali di situazioni rispetto ai quali il singolo è di fatto privo del potere di incidere sulla realtà. Non a caso, nella fase pandemica più acuta, il senso di responsabilità individuale è stato ossessivamente richiamato nella comunicazione istituzionale e i media hanno rinvigorito la narrativa della colpevolezza, partecipando così a un processo di deviazione del senso di colpa dagli organi decisionali verso i cittadini. L’appello al senso di colpa amplificato dall’iperindividualismo, che vede nemici ovunque, ha indebolito ogni espressione critica. L’operazione di autopromozione della politica e dei principali Media (“Siamo stati bravi”, “Gli altri paesi ci ammirano”, “Siamo diventati un modello”) ha finito per oscurare gli errori compiuti dal Governo, che hanno portato il paese totalmente impreparato prima alla seconda e poi alla terza ondata.

Siamo dunque in presenza di una moralizzazione eccessiva della società e, in particolare, dell’individuo che ne fa parte. Si può chiaramente notare una tale dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire, che molte affermazioni diventano verità indiscutibili, in quanto considerate come verità autoevidenti Si ha, dunque, un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine, specie in tempi di incertezza. In altri termini, inquadrare un’affermazione come “politicamente scorretta” consente di neutralizzarla subitoii. Non può più esservi alcun confronto perché chiunque trasgredisca tali verità viene attaccato anzitutto sul piano morale, fatto oggetto di scherno ed etichettato come fascista, comunista, complottista, ecc..

Tutto ciò nel periodo pandemico ha prodotto effetti disastrosi nella psiche individuale: ci ha indotti a sospendere istituti sociali primari quali il saluto ai morti o ai nuovi nati, le ricorrenze importanti quali i matrimoni, i battesimi, ecc. Addirittura spesso ci ha indotto a percepire il prossimo come minaccia mortale, per contro si sono accentuati fenomeni estremi di “opposizione”, che hanno visto, ad esempio, dilagare in America il fenomeno QAnoniii e, in Italia, le teorie complottiste dei “NoVax”.

Ma come si è arrivati a questo?

Purtroppo negli ultimi decenni la capacità collettiva di solidarietà ed empatia, indispensabili nell’affrontare eventi eccezionali, sembra aver raggiunto il suo “minimo storico” ed è integralmente delegata principalmente agli apparati dello Stato e dell’economia.

Il terrore del virus ha colpito al di sotto della zona cosciente da cui scaturiscono le scelte e le opinioni; incidendo sull’immaginario collettivo e sull’inconscio sociale, dove la struttura sociale, la visione del mondo condivisa e gli eventi storici ci forgiano senza che ne siamo consapevoli. In base alle esperienze personali, all’illusione di essere capaci di “autonomia decisionale”, alla fragilità delle relazioni sociali ed al background culturale, ognuno di noi può vedere solo il pericolo politico senza rendersi conto del pericolo del virus o, viceversa, vede il pericolo del virus ma non quello politico. La decisione di conformarsi totalmente alle regole dettate dall’autorità o di considerare ingannevole tutto ciò che proviene dal “mainstream” ha a che fare con i fondamenti antropologici sui quali l’umanità si è formata e sulle convinzioni radicate più in profondità e spesso inconsapevoli, che, tra l’altro, non sempre corrispondono del tutto con quelle dichiarate. E come sempre capita in questi casi la risposta collettiva ad eventi catastrofici e la paura che ne scaturisce dà modo a chi detiene il potere (politico o economico) di trarre indicazioni su come comportarsi per “lucrare sulla paura” ed aumentare il “controllo sociale” sui cittadiniiv.

Ne è prova ciò che sta succedendo a seguito dello scoppio della guerra nell’Europa centrale a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Il potere economico, infatti, sta lucrando profitti esponenziali con l’aumento di tutte le materie prime legate all’energia (assolutamente ingiustificato e frutto di mere speculazioni finanziarie), approfittando della paura del mercato; così come il potere politico, giocando sulla paura di una guerra globale nucleare, sta rafforzando il proprio potere di controllo su stampa e libero pensiero, accentuando sempre più la dicotomia tra “apocalittici” ed “integrati”v.

La pandemia, in tal senso, è stata solo il banco di prova e nel futuro dobbiamo aspettarci lo sfruttamento di ogni occasione, reale o creata ad arte, per accrescere la paura vera o presunta e, di conseguenza, il controllo sociale.

Giuseppe Motta

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NOTE

i G. Boccia Artieri e M. Farci, a cura di, Shockdown. Media, cultura, comunicazione e ricerca nella pandemia, Milano, Meltemi, 2021.
ii Per approfondire l’argomento vedasi: J. Friedman, a cura di P. Zanini, politicamente corretto, Milano, Meltemi, 2018.
iii Per approfondire il fenomeno Qanon vedasi: Wu Ming, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Roma, ed. Alegre, 2021.
iv Foucault ha utilizzato il termine “biopolitica” per indicare un’implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa in senso biologico, nell’ambito dell’analisi di quelli che il filosofo chiama “dispositivi di potere”. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica: corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2019. Inoltre cfr. Z. Bauman, Paura liquida, Bari, Laterza, 2009.
v Mi sono “liberamente” ispirato al testo di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Firenze, Bompiani, 1964, intendendo però per “apocalittici” i cosiddetti negazionisti e per “integrati” coloro che fanno esclusivamente riferimento alla comunicazione mainstream.

4 pensieri su “<strong>L’eredità della pandemia</strong>

  1. Trovo veramente azzeccato e opportuno questo approfondimento che inevitabilmente può, anzi deve, leggersi in una prospettiva molto più ampia. Traspare in modo evidente il fenomeno di una dialettica basata sul preconcetto piuttosto che sugli argomenti. E’ paradossale, a mio avviso, l’affrontare i vari temi in forma ideologizzata proprio in un momento storico in cui le ideologie sono state spazzate via da una “banalizzazione” di massa frutto , evidentemente, di una diffusa convinzione che “il tutto è a portata di tutti”!
    Questo credo sia il vero dramma del nostro tempo.
    Parallelamente a questo deserto culturale si diffonde sempre più una sorta di disillusione collettiva ove tantissimi giungono al totale disinteresse se non addirittura alla negazione di ogni cosa.
    “Io vivo, mangio, mi diverto ( se posso, e anche se non ne ho la possibilità), del resto me ne frego e mi infastidisco se mi pongono limiti, se non ,addirittura, trovo divertente sfidarli”!
    E’ una nuova forma di obnubilazione cosciente, uno scrollarsi le spalle vivendo il presente senza neache avere una ambizione o un desiderio ( aspettando che altri provvedano a “concederceli”).
    Esiste e sta crescendo in modo esponenziale una categoria sempre più numerosa: “quella dei disinteressati”!

  2. Aggiungo che avevo in grandi linee già prospettato alcuno degli argomenti oggi trattati in un mio precedente intervento ( pubblicato in questo blog) nel marzo scorso dal titolo ” LA QUASI DEMOCRAZIA OVVERO L’EVOLUZIONE DELLA DEMOCRAZIA”

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