Breve discorso sulla felicità (saggio sulla felicità)

 

Introduzione

 Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; ma, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità.”  (Jean-Jacques Rousseau)

Se si chiedesse a chiunque cosa è la felicità, probabilmente non si otterrebbero risposte precise e concordanti. Per qualcuno la felicità è uno stato emotivo, una condizione soggettiva piacevolmente positiva. Per altri è uno stato esistenziale, che dà una sensazione di appagamento. In qualche caso essere felici coincide con l’essere portatori di valori positivi, che danno un senso alla vita. In realtà vi è stato un mutamento costante nella percezione sociale del concetto della felicità che, storicamente, è gradualmente passato da una concezione che legava la felicità al “sommo bene”, a quello che la identifica con l’edonismo inteso come appagamento di ogni desiderio individuale. In altri termini prima si faceva coincidere il sentimento della felicità con l’etica e la morale, per cui l’essere giusti e perseguire il Bene più alto coincideva con l’essere felici. Viceversa l’appagamento dei propri desideri e delle proprie inclinazioni addirittura veniva considerato deleterio per il raggiungimento del sommo bene e, quindi, della felicità. Al contrario, sin dall’epoca moderna la felicità ha perso questa connotazione morale, divenendo qualcosa di esclusivamente personale, legato all’individualità e alla personale soddisfazione di inclinazioni e desideri. Oggi la felicità è considerata un “diritto” e come tale ci si aspetta di riceverlo e di vederlo tutelato dagli altri, a qualunque costo.

Qualunque sia l’idea che ci si possa fare di questo sentimento rimane il problema se esso sia uno stato duraturo o un attimo fugace che scompare immediatamente rimanendo solo nei ricordi. E se sia un sentimento attivo ed estremamente intenso, un sentimento che scaturisce dall’assenza di qualcosa come le ansie, le preoccupazioni, le malattie e i problemi o semplicemente un processo di ricerca che si esaurisce prima ancora della sua realizzazione e si trasforma in una nuova ricerca di qualcosa che non può arrivare mai; o se, infine, come nelle filosofie orientali, la vera felicità sia quella “senza un motivo”. La felicità interiore procura una gioia che è dissociata dai fattori esterni, dalle persone o dagli oggetti che si possiedono. Chi la sperimenta si sente completamente appagato e non è posseduto dalle cose che possiede.

I filosofi, antichi e moderni, hanno a lungo tentato di rispondere a queste domande trovando spiegazioni e soluzioni tra le più disparate. Anche gli psicologi ed i sociologi si sono occupati della questione, elaborando teorie più o meno scientifiche che, il più delle volte, danno spiegazioni parziali e funzionali a sistemi di pensiero più complessi.

La questione della “felicità”, dunque, accompagna l’Umanità da sempre, rivestendo nell’accezione comune una dimensione squisitamente personale e spirituale. Gli studi sulla felicità si sono concentrati in massima parte sui fattori soggettivi su cui essa poggerebbe. Si potrebbe quindi definirla come un sentimento, separato da un giudizio di valore sul proprio stato, sulle proprie condizioni, queste ultime riferibili piuttosto alla sfera cognitiva.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la “felicità” sembra identificarsi con la “Qualità della Vita”, che è la “percezione che ciascuna persona ha della propria posizione nella vita, nel contesto della cultura o del sistema dei valori in cui è inserito, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, priorità, preoccupazioni”. Da questa definizione emerge la visione del comportamento umano come olistico ed inclusivo della salute fisica, sociale e psicologica e soprattutto non può essere definita unicamente in termini di assenza di sintomi.

Il “problema” della “felicità” è, come si può vedere, molto complesso e va analizzato tenendo conto della varietà di significati sia dal punto di vista semantico che dell’impatto individuale e sociale. Con questo breve lavoro cercherò di analizzare il concetto da più punti di vista, senza pretesa di completezza e, soprattutto, senza cercare soluzioni “a tutti i costi”. Per far ciò manterrò la medesima struttura del mio precedente “breve discorso sul male”, iniziando con una disamina “filosofica” del concetto di felicità attraverso il pensiero di quei filosofi che, a mio avviso, hanno colto, almeno in parte, l’essenza del concetto, ponendo l’attenzione su elementi rilevanti ai fini della comprensione di tale sfuggente concetto.

La filosofia, al primo posto, sul piano sistematico perché, come al solito, anticipa i tempi e percepisce le nuove tendenze che decenni o secoli dopo, magari, sembreranno scontate. La psicologia, invece, che studia il comportamento umano e cerca di comprenderne ed interpretarne i processi mentali, affettivi e relazionali che lo determinano con lo scopo di promuovere il miglioramento della qualità della vita. Di conseguenza sembra essere il campo d’elezione della felicità: comprendere se stessi per capire cosa rende felici e, quindi, comportarsi di conseguenza. Ma, come si vedrà, neanche la psicologia riesce a cogliere in maniera completa le molteplici sfaccettature di un sentimento così complesso.

La religione, che nasce prima ancora della filosofia, ha un’idea della felicità inscindibilmente legata all’aldilà, all’unione con Dio. Questo concetto ha influenzato e continua a influenzare tutti coloro che hanno una coscienza religiosa ed una fede che consente di superare ogni problema terreno in vista di una felicità futura ed eterna.

Infine, il diritto alla felicità esiste o è una mera chimera? Può lo Stato garantire ai propri cittadini l’accesso alla felicità? Ha un senso parlare di diritto dal momento che non è neanche possibile dare una definizione precisa di questo sentimento? Queste domande si pongono pressanti in un’epoca in cui ognuno pretende di avere diritto alla felicità anche se a scapito di quella degli altri; è lecito quindi chiedersi se la propria felicità sia compatibile, e in che limiti lo sia, con quella degli altri e, qualora limitata dall’altrui diritto alla felicità, se può continuare a definirsi felicità.

Tratto dal saggio “breve discorso sulla felicità” di Giuseppe Motta

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