di Giuseppe Motta
Premessa: interazione sociale e comunicazione
Chi odia in Rete è davvero cattivo o è solo un imbecille? Avrei voluto intitolare così queste mie riflessioni ma ho pensato che anch’io sarei stato catalogato come un “Hater” e quindi ho deciso di togliere la seconda parte e tentare un ragionamento quanto più obiettivo possibile su questo preoccupante fenomeno. Per inquadrarlo sistematicamente occorre però delinearne il contesto culturale e sociale in cui trova linfa e si sviluppa, in quanto trattasi pur sempre di una “azione sociale” posta in essere consapevolmente con il preciso scopo di denigrare o diffamare qualcuno in Rete in un contesto più ampio di “interazione sociale”. Per “azione sociale” intendo quei processi mentali con cui gli individui, che attribuiscono un senso al proprio modo d’agire, formulano congetture sul senso che gli altri attori attribuirebbero a quello specifico modo di agire. In base a tali congetture orientano la propria attribuzione di senso. Secondo tale criterio di reciprocità i processi “dell’azione” si differenziano da quelli “dell’interazione” sociale perché in questi ultimi il senso soggettivo diventa senso socialmente scambiato o concordato. Ciò non implica che questi processi di reciproca costituzione di senso si svolgano sempre in modo manifesto, né che questi debbano essere concordati di volta in volta: infatti può avvenire in base a tradizioni culturali, tacite convenzioni o consuetudini.
Per chiarire il concetto basta partire dalla distinzione concettuale tra comportamento e azione mediante il criterio del senso soggettivo: il comportamento indica ogni sorta di azioni e reazioni umane, consapevoli o inconsapevoli, progettate o meno, mentre l’azione consiste nell’associare al comportamento un senso soggettivo, nell’azione sociale, infine, come si è detto, il senso viene attribuito in funzione delle aspettative di significato che si suppone gli altri diano all’azione stessa. Ciò che distingue invece l’interazione sociale dall’azione sociale è dunque l’attribuzione reciproca di senso che si costituisce nel corso del processo stesso che viene così “concordato” in maniera più o meno consapevole.
L’interazione sociale così intesa si manifesta assumendo le forme della comunicazione; nella maggior parte dei casi, infatti, l’interazione tra due o più individui si realizza attraverso una comunicazione. Mediante quest’ultima, infatti, si crea una rete di rapporti, si determina il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una famiglia e si stabilisce il grado di coinvolgimento intersoggettivo nelle attività quotidiane. L’azione quindi diventa interazione.
In questo contesto, la comunicazione rappresenta il risultato di un’attività congiunta di produzione di significati condotta dagli interlocutori in una prospettiva dialettica, intesa come relazione linguistica ma, sopratutto, come rapporto psico-sociale. In altri termini, essa si inserisce in un processo dinamico che una persona compie verso un’altra persona determinando, come conseguenza dell’informazione o del messaggio inviato e/o ricevuto, delle trasformazioni o dei cambiamenti, più o meno significativi, nei comportamenti, negli atteggiamenti, negli stati emotivi, nei modi di lavorare o di interagire con il proprio e l’altrui mondo sociale.
Comunicare, con una definizione molto semplicistica ma efficace, vuol dire trasferire informazioni in modo che queste arrivino a qualcuno che effettivamente ne prenda conoscenza, e riceverne un feedback. L’attività del comunicare è un’attività complessa che implica una relazione interattiva tra due o più individui, è connessa al significato, in quanto mira ad una produzione di senso, ed è sistemica perché riguarda la socializzazione in senso lato. Essa ha sempre una funzione pragmatica è cioè in grado di provocare degli eventi nei contesti di vita attraverso l’esperienza comunicativa, intesa sia nella forma verbale che in quella non verbale, ed è in tal senso che può essere considerata come la “forma” dell’interazione sociale.
Internet e interazione sociale
Non sembrano esserci dubbi sul fatto che Internet abbia ridefinito i modelli di interazione sociale e della comunicazione creandone di nuovi e modificando quelli già esistenti. In particolare la nascita del Web 2.0 ha stravolto i principi della comunicazione broadcasting verso un’interattività sempre più spinta. La differenza sostanziale con il Web 1.0, risiede nell’approccio con cui gli utenti si rivolgono alla Rete: dalla semplice consultazione passiva dei contenuti alla produzione dinamica e attiva di pagine web e informazioni che vanno ad arricchire, popolare e alimentare la Rete: il Web 2.0 riflette dunque una “democratizzazione dei media”, i cui contenuti sono accessibili e alla portata di tutti attraverso le nuove tecnologie.
I social network sono l’espressione tipica del Web 2.0 e spesso anche la più problematica. Le comunità esistevano già da molto tempo prima della comparsa delle nuove tecnologie: queste hanno solo permesso di andare oltre le barriere dello spazio e del tempo e di trasformarle appunto in social network.
Essi sono entrati a far parte, in maniera più o meno pervasiva, della vita di ognuno di noi, a chi non è capitato di esclamare: “ma come non hai whatsapp? Non sei su Facebook?” Perché, appunto, abbiamo la tendenza a dare per scontato che ormai buona parte delle interazioni sociali passino attraverso i social network, che, inoltre, hanno creato nuovi codici di comunicazione in cui l’immediatezza e la velocità rappresentano gli aspetti essenziali. L’immediatezza è allo stesso tempo, un tratto distintivo e una necessità. Esserci e comunicare un avvenimento nel momento in cui questo si compie è di capitale importanza. Ogni momento della nostra vita è essenziale e suscettibile di diventare oggetto di questa nuova comunicazione. Si comprende in che senso dunque l’uomo passa da “oggetto” a “soggetto” di comunicazione, con evidenti e incisive ripercussioni nella creazione dell’identità e del ruolo sociale. L’uomo moderno è, infatti, cresciuto da cittadino, consumatore e pubblico in un ambiente comunicativo in cui viene percepito come “oggetto” di comunicazione, oggi, viceversa, anche grazie ai social, comincia a percepirsi come “soggetto”; ciò in quanto sono cambiate proprio le possibilità della comunicazione, ed al pensarsi come cittadini, consumatori e pubblico va aggiunto il termine “connessi” inteso nel senso più ampio.
Il XXI secolo è stato protagonista del boom dei social network e delle piattaforme web di condivisione come, per esempio, Facebook, Twitter, Instagram, YouTube. Questi strumenti permettono la pubblicazione, la lettura e la condivisione di contenuti audio, video o testuali in modo rapido e semplice, favorendo una forma di partecipazione online straordinariamente coinvolgente. Entrare a far parte di un social network è semplicissimo, essendo sufficiente creare un proprio profilo personale mediante l’inserimento di informazioni relative alla propria persona; si possono indicare anche interessi personali, amicizie ed esperienze di lavoro passate e presenti o aspirazioni future, in qualche caso è ancora più semplice essendo sufficiente scaricare un’App sullo smartphone che acquisisce in automatico i contatti telefonici creando una Rete sociale basata sulla rubrica telefonica (Whatsapp, telegram, ecc). È inoltre possibile allargare la propria rete sociale sia invitando amici e collaboratori a farne parte, o cercando nella Rete persone con interessi affini o con le competenze necessarie per risolvere determinati problemi, al fine di condividere con queste qualsiasi tipo di informazione. In quest’ultima ipotesi è possibile costituire delle community tematiche in base ai propri interessi o alle aree di business, aggregandovi altri utenti per stringere contatti di amicizia o di affari(1). Queste caratteristiche sono, come vedremo, molto importanti, in quanto contribuiscono ad accrescere determinati sentimenti di appartenenza ad un gruppo omogeneo, che gratifica e si autoalimenta in sostituzione di quegli elementi di aggregazione che prima erano le grandi ideologie e le religioni.
Occorre preliminarmente sfatare alcuni falsi miti sui social che spesso ci inducono ad affrontare il fenomeno da una prospettiva non del tutto corretta. In relazione ai risultati di alcune recenti ricerche sociali sembra statisticamente infondata la convinzione che la presenza sui social network produca una riduzione delle relazioni interpersonali face to face. Si è rilevato infatti che sono proprio gli estroversi ad essere più presenti e ad usare questo strumento come estensione della propria socialità più che come sostituto(2). Ciò ovviamente non esclude che le persone più introverse possano usare i social come strumento di facilitazione dei contatti interpersonali da cui si sentirebbero altrimenti escluse.
Spesso, inoltre, si pensa che nel confronto con i profili di altri possa sorgere una sensazione di inadeguatezza, specie in chi abbia una personalità più fragile o una bassa autostima: in realtà un vantaggio dei social è, al contrario, quello di un aumento dell’autostima. Ciò è dovuto alla possibilità di selezionare le modalità di autopresentazione e la cura della propria immagine online, che sembrano conferire più soddisfazione e senso di autoaffermazione sociale. È quanto emerge da uno studio della Cornell University (Ithaca, New York, Usa), secondo cui i social network permettono di filtrare i lati peggiori della propria personalità lasciando in luce solo i pregi(3).
Infine, Facebook sembra essere un ottimo strumento di supporto sociale. Le persone tendono a esprimere maggiormente i propri sentimenti di malessere online rispetto a quanto non facciano nella vita quotidiana e parallelamente ricevono più supporto dai commenti di amici e di altre persone e sentono gli altri più vicini e accoglienti. In questa direzione Facebook potrebbe rappresentare una nuova via per combattere lo stigma solitamente associato alla sofferenza psicologica, per contro, invece, specie tra gli adolescenti, la rappresentazione social di problemi o di crisi personali può portare all’isolamento o, peggio, al cyberbullismo.
Non vi è dubbio infine che i nuovi media sarebbero in grado di portare ad una regressione a un vero e proprio stadio infantile. Infatti, come vedremo meglio in seguito, spesso adulti che interagiscono via social si comportano come bambini: ingenuità e creduloneria, curiosità ed esibizionismo, competitività ed agonismo diventano caratteristiche diffuse molto più che nella vita reale. Non è difficile trovare stimati professionisti o seri lavoratori che in Rete si trasformano in diffamatori aggressivi, in ingenui complottisti o in volgari e blasfemi interlocutori.
Il fenomeno degli Haters
Nella nostra cultura la sensibilità e il carattere traspaiono dal modo in cui comunichiamo. Spesso però le emozioni, soprattutto quelle non consapevoli, rischiano di determinare comunicazioni difficili e conflittuali. Quando si è in difficoltà nel rapportarsi con gli altri avviene un’eccessiva identificazione con se stessi che attiva le difese automatiche che limitano o alterano il flusso delle informazioni. In tali circostanze, la capacità di ascolto diminuisce o viene meno e la comunicazione può essere permeata dal tentativo di vincere anziché dal reale desiderio di comunicare. In questi casi è facile passare all’uso di parole ostili nei confronti delle argomentazioni dell’altro. Ciò avviene con frequenza preoccupante nella comunicazione in Rete dove la diffusività virtualmente senza limiti e l’ impossibilità di frenarne le conseguenze rendono il fenomeno molto più grave. All’interno del mondo online, le persone tendono a dire o fare cose in modo più aperto, disinibito e intenso rispetto a come le direbbero nel contesto di interazioni face to face. Questo fenomeno è stato definito “effetto di disinibizione online”(4). Le caratteristiche dell’effetto di disinibizione online sono: l’anonimità dissociativa: con la separazione tra lo stile ordinario di vita e le azioni online; l’invisibilità: il fatto di: non vedersi aumenta il “coraggio” degli utenti; l’asincronia comunicativa: gli scambi non sempre sono in tempo reale e quindi l’utente non può rilevare la reazione al proprio commento che renderebbe naturale una tendenza all’adattamento della comunicazione; l’immaginazione dissociativa: l’opportunità data dal mondo online di dissociarsi, combinata alla possibilità di creare un proprio personaggio in parte (o totalmente) immaginario, amplifica l’effetto di disinibizione con la tendenza a sottovalutare l’effetto delle proprie azioni; la minimizzazione dell’autorità: dovuta alla mancanza di indizi non verbali che tendono a regolare il comportamento.
Quello degli Haters, letteralmente “odiatori”, è dunque un fenomeno sociale emerso con i social media. Prima di Internet non esisteva nelle forme e con l’intensità che si possono vedere da quando è possibile interagire in Rete. Il vocabolario Treccani definisce un hater come: “Chi, in Internet e in particolare nei siti di relazione sociale, di solito approfittando dell’anonimato, usa espressioni di odio di tipo razzista e insulta violentemente individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.)”. In genere si tratta di una persona che non pensa di voler essere come la persona che odia ma pensa, anzi, di esserne superiore, per questo la odia. Quest’odio è generato da sentimenti di gelosia, di invidia o di insicurezza; l’Hater però non desidera diventare come le persone che attacca, ma al contrario soddisfa il proprio complesso esclusivamente insultando o denigrando gli altri. Gli “altri” possono indifferentemente essere o personaggi specifici che diventano oggetto di tale odio ed in questo caso si configura il reato di stalking, oppure chiunque la pensi in modo diverso da noi. I contenuti dei messaggi degli Haters sono di norma caratterizzati dall’assenza di obiettivi precisi e critiche costruttive e si distinguono per la difficoltà di individuare una motivazione chiara radicata nel contesto in cui si manifestano. Ciò che sorprende maggiormente è che nell’interazione face to face con gli odiatori ci si rende spesso conto che non si ha a che fare con stupidi o sociopatici ed è incredibile il “distillato di odio” che mostrano senza rendersi conto della portata di tale sentimento. Il più delle volte non si ritengono “odiatori” anzi criticano gli altri per la violenza del loro linguaggio, quando si fa loro rilevare che anche il linguaggio che usano è da odiatore, di norma trovano una giustificazione morale che rende “eticamente corretto” quel linguaggio solo per loro.
Gli Haters si riconoscono immediatamente perché con loro non esistono vie di fuga, non c’è alcuna possibilità di discussione, non ci sono presupposti per un dialogo efficace. La comunicazione in Rete è per loro solo un mezzo per annientare, sminuire o ridicolizzare l’avversario, il nemico. Una sorta di guerra di religione dove le diverse posizioni sono tali “per fede” e non per confronto, conoscenza e scambio culturale; di conseguenza qualsiasi discussione con loro è destinata a non avere mai fine, devono avere sempre l’ultima parola e quando non si raccoglie la provocazione spesso aumentano il livello di offesa per provocare una reazione che soddisfi il proprio EGO smisurato.
Le motivazioni degli Haters
Le motivazioni che spingono persone “normali” ad eliminare ogni inibizione e diventare degli Haters possono essere molteplici: dalla semplice noia, alla ricerca di attenzione, dalla vendetta, al piacere ed al desiderio di fare un danno agli altri, in relazione ai quale si percepiscono come outsider liberi di manifestare le proprie frustrazioni. In alcuni casi il comportamento aggressivo online può essere legato a tratti deviati della personalità degli Haters stessi. In uno studio psicologico online alcuni ricercatori hanno trovato una correlazione positiva tra i tratti di personalità narcisista, tratti psicopatici e personalità antisociale o addirittura sadica (5). Secondo questa ricerca, dunque, i comportamenti negativi online scaturirebbero dal puro piacere di farlo e il fenomeno andrebbe letto come una manifestazione quotidiana online dei tratti sadici che le persone tendono a non esprimere nella vita reale (vedasi la foto a fianco tratta dal profilo facebook “vogliamo l’italia senza comunisti” e riportata da www.analfabetifunzionali.it).
Secondo un’altra ricerca, invece, l’outcome principale ricercato dagli Haters è la “potenza sociale negativa”, quella sensazione di sentirsi potenti per il solo fatto di aver arrecato un danno ad altri (6). Il tratto di psicopatia risulta essere quello maggiormente correlato a tali comportamenti, ma allo stesso tempo anche a caratteristiche vittimologiche specifiche. Di norma sono guidati da una diffusa sensazione di impotenza che provano nella vita reale, In genere nel loro contesto familiare e sociale hanno un diritto di parola e di replica limitato. Di conseguenza online si credono rivestiti da questo senso di onnipotenza in cui sono liberi di esprimere tutto ciò che provano senza che si applichino restrizioni di alcun tipo. Spesso inoltre hanno una altissima considerazione della propria intelligenza “sanno” con assoluta certezza di “sapere” tutto e di avere quindi il diritto di offendere chi non la pensa come loro, altre volte sostengono di agire in nome di principi morali imprescindibili, innalzandosi a modelli e portavoce di essi; il loro comportamento è caratterizzato dall’effetto Dunning-Kruger e cioè dall’incapacità di essere consapevoli dei propri limiti che provoca una distorsione cognitiva che li porta a sopravvalutarsi ed a considerare idioti tutti gli altri. In genere più è violento l’attacco, maggiore sarà la soddisfazione personale provata. Essere presi in considerazione ed essere sicuri di aver scatenato la rabbia altrui è il massimo della loro gratificazione.
In definitiva non esiste una categoria unica di “odiatore” ma diverse tipologie che si identificano in relazione alla motivazione che li spinge: ci sono quelli che odiano per partito preso e sono le personalità sociopatiche e sadiche; coloro che odiano chi la pensa diversamente, mostrando una totale incapacità di ascolto e di empatia verso l’interlocutore; coloro che criticano per sentirsi parte di una community da cui traggono sostegno e con cui si identificano ed infine ci sono i cosiddetti Troll.
Il fenomeno dei Troll
Un troll è un disturbatore che con provocazioni inutili mette zizzania all’interno di una discussione online. In genere si tratta di account guidati da qualcuno che si intromette in discussioni già avviate e alle quali stanno prendendo parte molte persone. La ragione dello scegliere questo tipo di conversazioni è quella di avere il più ampio pubblico possibile composto da persone che utilizzano abitualmente Internet e sono pronti a rispondere alle sue provocazioni.
Il troll agisce inserendosi nelle discussioni con battute senza senso, nella maggior parte dei casi insulti rivolti a uno specifico utente o a più utenti per ottenere una loro reazione (vedasi la foto a fianco tratta dal sito analfabetifunzionali.it). Lo scopo dei suoi commenti è spesso quello di deviare la discussione su altri temi rispetto a quelli iniziali. In un primo momento, si uniscono alla comunità Web in modo apparentemente normale, riuscendo ad instaurare rapporti cordiali con alcuni membri della rete sociale in cui si è inserito, per poi sferrare l’attacco con pesanti provocazioni ed insulti gratuiti.
A volte si tratta di vere e proprie organizzazioni dedite alla creazione e diffusione di notizie inventate, con l’obiettivo di sostenere una particolare causa politica o di creare caos e divisione attraverso la modifica e la ripubblicazione di notizie, ingaggiare discussioni sui social o sponsorizzare il proprio credo politico mediante l’aizzamento dell’odio verso l’avversario. Purtroppo in una fase storica in cui un determinato linguaggio è stato sdoganato il fenomeno dei Troll ha acquisito uno sviluppo preoccupante che da ludico si è trasformato in politico, spesso razzista nei confronti di ogni minoranza o intollerante verso chi non la pensa come lui. Il problema è ancora più grave se si considera che trovano sempre più persone apparentemente “normali” che, se opportunamente provocate, mostrano un odio, un disprezzo, una cattiveria senza limiti verso il prossimo, specie quando è più debole, creando un contesto in cui si arriva a giustificare la violenza e l’aggressività senza alcuna apparente ragione.
Uno psicologo americano ha dimostrato negli anni settanta come determinate situazioni contestuali riescano a stimolare la comparsa di aggressioni verbali e/o fisiche nella maggioranza degli individui. All’interno di una prigione venne richiesto a dei soggetti che partecipavano allo studio di dividersi in due gruppi (in maniera del tutto casuale). Un gruppo di soggetti assunse il ruolo di guardie e l’altro quello dei prigionieri. Per alcuni giorni i partecipanti allo studio riuscirono a mantenere i ruoli richiesti dagli sperimentatori. Ma dopo un po’ di tempo i partecipanti presero sul serio le indicazioni sul loro ruolo ed emersero comportamenti violenti tanto gravi che l’esperimento dovette essere sospeso. Nell’analisi statistica e psicologica degli studiosi si evidenziò come fosse proprio il contesto (luogo dell’esperimento, ruolo assunto, divisa indossata, ecc.) la dimensione che spiegava al meglio la comparsa di aggressioni da parte delle “guardie” e spingeva i “prigionieri” a ritenere di meritare tali comportamenti (7).
Allo stesso modo possiamo guardare al fenomeno dell’aggressività online come a dei comportamenti che avvengono all’interno di un frame relazionale, uno specifico insieme di caratteristiche psicologiche e fisiche che caratterizzano il “luogo” internet e lo rendono diverso da qualsiasi altro in quanto rende possibile sfogare la rabbia e la frustrazione senza ripercussioni dirette. C’è sempre una relazione tra la propria frustrazione e aggressività espressa, l’utilizzo di contenuti e messaggi violenti nel mondo digitale può quindi essere ricondotto ad un bisogno di catarsi, un modo per canalizzare delusioni, incomprensioni e aspettative rimaste inattese e la “situazione contestuale” creata da Internet ne amplifica gli effetti.
Come si caratterizza negli Haters il sé, il sé virtuale e l’altro virtuale
I Social concedono una possibilità unica nel suo genere: quella cioè di essere parte di un “tutto sociale” senza investire nulla in un contatto reale. Lo stesso termine “virtuale”, utilizzato per indicare i rapporti sociali mediati dalla Rete, significa che esistono in potenza ma che non si sono ancora realizzati. Se si accetta questa premessa si può affermare che la relazione che si instaura con “l’altro” è fortemente sbilanciata, in quanto lo implica solo nella misura in cui “l’altro” faccia da pubblico, da supporto all’Io senza un vero scambio relazionale. Su facebook, ad esempio, ci si esprime a prescindere da ciò che esprimono gli altri e l’autoreferenzialità la fa da padrone. Il rischio di isolamento è molto alto: basta osservare un qualsiasi contesto sociale ordinario dove lo smartphone sembra essere diventato parte integrante del corpo; sempe più frequentemente si osservano persone raggruppate ma sole, ritirate in un mondo di “sé-sé virtuale-altro virtuale”.
I Social ci consentono di incorniciare il proprio Sé in un quadro di autoreferenzialità totale, dove è possibile ingigantire i pregi e smussare se non eliminare i difetti, con la pretesa dell’avere un bisogno profondo di qualcosa dall’altro, ma volerlo ottenere senza passare dall’altro come soggetto;
esiste una totale identificazione tra il Sé e l’Idea del Sè, ciò si nota non soltanto dalla tendenza a fossilizzarsi nell’immagine illusoria e perfetta del proprio profilo Social, ma anche dall’intenzione di voler proporre questo Sé come oggetto, nella sua massima esposizione e di cui gli altri possano godere. Questo processo avviene in maniera prevalentemente ego-sintonica: se prendiamo ad esempio i profili Instagram è usuale trovare immagini di sé sessualmente esplicite in un processo ego-sintonico per cui i bisogni e desideri dell’Io sono coerenti con l’immagine che ha di sé il soggetto: l’idea è che l’immagine profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sulla propria identità.
Se si fa una trasposizione di tali concetti al comportamento degli Haters, si comprende come alla base dei contenuti offensivi vi è sempre una voglia narcisistica di apparire migliori: più intelligenti, più colti, in altri termini, superiori agli altri. L’atto di offendere attira l’attenzione, pone l’autore in”vetrina”, sublima il suo Ego e rafforza il Sé virtuale che si è creato; l’altro virtuale oggettivizzato rappresenta solo una platea che assiste allo spettacolo del Sè virtuale che l’Hater ritiene sia il suo vero Sè.
Ma spesso questo narcisismo esasperato non è in grado di fargli comprendere la reale portata delle sue azioni che oltre ad essere condannabili socialmente a volte integrano veri e propri reati.
Quando odiare in Rete diventa un reato
Le nuove tecnologie, se da un lato assicurano il diritto di espressione on line a chiunque, pongono a rischio alcuni tra i valori più importanti della persona: la dignità, l’onore e la reputazione. Come si è visto, il Web, in questo senso, è devastante poiché, grazie all’anonimato, induce i più impudenti alle offese e agli insulti di ogni genere. L’utente che insulta alla presenza (virtuale) di altri dovrebbe andare incontro, di norma, alla rimozione del contenuto del messaggio e, nei casi più gravi, ad essere “bannato” dalla piattaforma. Ma accanto a tali provvedimenti inibitori, regolamentati direttamente dal Social, l’ordinamento giuridico prevede una tutela penale e civile molto incisiva anche se a volte poco efficace su un danno già prodotto e virtualmente non eliminabile.
L’Ordinamento giuridico italiano, però, non sembra preparato a reggere l’urto di tale tipologie di reati per una serie di motivi; invero il progressivo incremento della platea degli utilizzatori dei social network ha causato una enorme mole di reati e, conseguentemente, di denunce presso gli organi competenti, inoltre la presenza di Haters, che per il tramite di artifici informatici riescono a rendere molto difficoltosa la loro identificazione, aumenta la complessità delle indagini, sia da un punto di vista quantitativo che, soprattutto, qualitativo, sottraendo sempre più energie al sistema giudiziario.
I reati più diffusi che commette l’Hater sono: la diffamazione aggravata, le minacce, la sostituzione di persona, le molestie, lo stalking e l’incitamento all’odio razziale.
L’Hater nella maggior parte dei casi utilizza un linguaggio offensivo con lo scopo, non di esprimere le proprie opinioni, ma semplicemente per umiliare quelle degli altri ed ottenere, possibilmente, un plauso dagli altri cybernauti. Spesso i commenti denigratori non sono rivolti contro le idee espresse dalla vittima ma si limitano ad insultarne la morale, la dignità e l’intelligenza. Per ciò questo comportamento rientra nei parametri del reato della diffamazione aggravata dall’uso di Internet che viene considerato quale mezzo di pubblicità. La persona offesa da una diffamazione avvenuta online può proporre una querela con cui chiedere al giudice penale di perseguire il presunto colpevole anche con l’obiettivo di far valere una pretesa risarcitoria per il danno subito. Il Giudice competente, essendo il Web un non luogo, si è ritenuto essere quello in cui il contenuto offensivo è stato caricato in Rete e quindi il giudice del luogo in cui la condotta lesiva si è realizzata.
Un’alternativa al procedimento penale è rappresentata dall’azione diretta della vittima nei confronti dell’offensore, citandolo innanzi al giudice civile per chiederne la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 2043 c.c. e di quello non patrimoniale ex art. 2059 c.c., davanti al giudice del luogo della propria residenza/domicilio.
Un altro reato che si configura frequentemente è quello di minacce. Infatti spesso le offese sono accompagnate da frasi intimidatorie che hanno lo scopo di porre in uno stato di soggezione la vittima.
Molti pensano di essere più furbi e si nascondono dietro ad account anonimi. La polizia postale ha però diversi sistemi per scoprire l’ID di un profilo falso su un social network, risalire alla connessione internet e individuare il colpevole. La Cassazione ha decretato che integra il delitto di cui all’art. 494 c.p. la condotta di colui che crei ed utilizzi un profilo su social network, utilizzando abusivamente l’effige di una persona del tutto inconsapevole, al fine di comunicare con altri iscritti e di condividere materiale in rete, allo stesso modo il semplice inserimento del recapito telefonico di una persona ignara in una chat di incontri personali, sebbene associato ad un nickname di fantasia, integra il reato di cui all’art. 494 c.p., in quanto il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per “nome” non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità.
Il reato di molestie nei social network, rientra nella più ampia fattispecie astratta del reato di molestie, rubricato all’art. 660 del Codice Penale. Secondo tale norma, chiunque in un luogo pubblico o aperto al pubblico, per mezzo del telefono, reca a taluno molestia o disturbo, è punito, previa querela di parte, con la pena della reclusione fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro. Le piattaforme social possono essere, secondo la Suprema Corte di Cassazione, assimilate ad un luogo aperto al pubblico, stante la loro natura e funzione, vale a dire quella di acconsentire l’accesso ad un numero non definito di persone (8). Per questo motivo, anche il reato di molestie, può configurarsi anche online e sulle piattaforme social. Se le molestie attengono il profilo sessuale il reato è perseguibile d’ufficio e non necessita della querela di parte. Non è invece configurabile il reato di molestia o disturbo alle persone previsto dall’art. 660 cod. pen. allorché vi sia reciprocità o ritorsione delle molestie, in quanto in tal caso non ricorre la condotta tipica descritta dalla norma, e cioè la sua connotazione di petulanza o altro biasimevole motivo, cui è subordinata l’illiceità penale del fatto.
Quando però queste molestie online portano la vittima a temere per sé stessa o a cambiare le proprie abitudini per paura, scatta il reato di stalking, decisamente più grave. Lo stalking, introdotto nel 2009 con l’aggiunta dell’art. 612 bis al codice penale, prevede “la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Come si può notare il cyberstalking viene considerato un’aggravante dello stalking tanto da prevedere un aumento della pena edittale.
Questo reato infatti assume una particolare delicatezza anche alla luce dell’attuale sviluppo tecnologico. I temuti atti persecutori possono essere realizzati non solo con il telefono o lettere anonime, ma utilizzando i social network, la per posta elettronica, la messaggistica istantanea e strumenti affini. Inoltre la vittima può essere perseguitata controllandone i movimenti tramite la Rete, tutto ciò, unito all’enorme potenziale diffusivo dello strumento telematico ed alla possibilità di integrare la fattispecie incriminatrice al di fuori dei concetti reali di spazio e tempo, rendono enormemente più pervasiva la minaccia e aumentano in maniera esponenziale il timore della vittima. Proprio per questi motivi recentemente la Cassazione ha chiarito che per la configurazione del reato di stalking, anche in assenza di un incontro fisico tra vittima ed imputato, sono sufficienti pochi messaggi via WhatsApp ed una telefonata dal tono minaccioso, che però siano da sole sufficienti a modificare le abitudini della persona offesa (9).
Vi sono, infine, i cosiddetti crimini di odio che caratterizzano più di ogni altro, secondo le più recenti statistiche, il comportamento degli Haters e su cui è forse il caso di soffermarsi maggiormente.
L’hate speech può essere definito come un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei confronti di quel gruppo a causa della sua connotazione razziale, etnica, religiosa, culturale o di genere. L’effetto principale è quello di alimentare i pregiudizi, consolidare gli stereotipi e rafforzare l’ostilità, fino a identificare l’altro come “radicalmente diverso”, in un processo che, attraverso una svalutazione sistemica dei gruppi di appartenenza differenti dal proprio, da un’iniziale de-legittimazione può giungere a una vera e propria de-umanizzazione, spesso prodromica a veri e propri crimini d’odio. L’esigenza di colpire le manifestazioni di intolleranza nei confronti di un singolo o di un gruppo di individui, idonee a lederne l’uguaglianza e la dignità, trattandosi di condotte di opinione, non connotate dall’uso della violenza fisica, si pone però in conflitto con la libertà, anch’essa fondamentale, di espressione, che, in quanto condizione sostanziale per il progresso e lo sviluppo della società, è chiamata a garantire pure le affermazioni sgradevoli o socialmente ritenute ripugnanti.
La questione è dunque piuttosto problematica.
Pur non essendo le espressioni di odio un fenomeno direttamente legato all’era di Internet, purtroppo, in questa trovano una platea virtualmente senza limiti a causa di fattori agevolatori che ne aumentano le potenzialità lesive. Tali fattori possono essere individuati nella velocità istantanea di diffusione dei messaggi; nella possibilità di raggiungere immediatamente milioni di destinatari; nella capacità del contenuto offensivo di sopravvivere per un lungo arco di tempo oltre la sua immissione anche quando cancellato, e, infine, nella natura transnazionale degli intermediari informatici, che solleva evidentemente la necessità di una cooperazione tra gli Stati e le loro diverse giurisdizioni.
L’esigenza di ostacolare l’affermazione dell’odio in Rete è emersa, anzitutto, nell’ambito delle Istituzioni europee, le quali, negli ultimi anni, hanno messo progressivamente in atto una strategia finalizzata a fronteggiarne la diffusione. Nell’ottica europea, i fenomeni discriminatori si ripercuotono negativamente non solo sui gruppi o sui singoli presi di mira, ma anche su tutti coloro che nella società si esprimono a favore della libertà e della tolleranza e richiedono, pertanto, politiche attive di contenimento. In tale prospettiva è stato istituito, su iniziativa della Commissione, un Internet Forum, che riunisce i Ministri degli Interni degli Stati membri dell’Unione europea, nonché i rappresentanti dei principali fornitori di servizi via Internet, del Parlamento europeo, di Europol, e il coordinatore europeo per la lotta al terrorismo. Obiettivo del Forum è quello di individuare sistemi che ostacolino la diffusione di contenuti che inneggiano all’odio, alla violenza e al terrorismo internazionale. All’approccio statistico-culturale si è accompagnata la sollecitazione delle piattaforme web a porre in essere meccanismi di prevenzione e rimozione dei contenuti offensivi pubblicati sui loro portali (10). Tra i numerosi impegni assunti, i più importanti sono: l’adozione di procedure chiare ed efficaci per esaminare le segnalazioni riguardanti forme illegali di incitamento all’odio nei servizi da loro offerti, in modo da poter rimuovere tali contenuti o disabilitarne l’accesso; l’adozione di linee-guida indirizzate alla comunità degli utenti della Rete, che precisino il divieto di ogni forma di istigazione all’odio e alla violenza; l’obbligo di esaminare, entro 24 ore dalla ricezione, la maggior parte delle segnalazioni di illecita istigazione all’odio nei servizi offerti dal provider e, se necessaria, la rimozione di tali contenuti o la disabilitazione dell’accesso al sito.
La Commissione europea, in una Raccomandazione del 1 marzo 2018 (n. 1177) sulle misure per contrastare efficacemente l’odio online, ha sollecitato agli Stati membri affinché rendano chiaro agli hosting service provider quali siano i contenuti illegali che è opportuno rimuovere, in modo da fugare ogni incertezza, e ai provider di informare nel modo più semplice, chiaro e trasparente possibile gli utenti della propria policy in materia di contenuti odiosi, di approntare procedure di chiare, trasparenti e user-friendly, nonché di informare gli utenti delle modalità per opporsi a una decisione di rimozione dei contenuti. Per la soluzione delle controversie, la Commissione ha sollecitato soprattutto l’utilizzo di procedure stragiudiziali in alternativa al ricorso giurisdizionale.
Ma a cosa va incontro, invece, chi immette tali contenuti?
Divulgare sui social network, nei blog e su Internet in generale frasi che incitano alla discriminazione o a commettere violenze per motivi religiosi, etnici o razziali significa commettere i reati previsti dalla legge 205/93 che, sebbene promulgata in un periodo storico in cui il fenomeno degli Haters online non era ancora nato, contiene delle fattispecie di carattere generale perfettamente adattabili al Web. Se i discorsi di odio diffondono idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico il reato è punito con la reclusione fino a tre anni e per integrarlo basta scrivere commenti che incitino all’odio per motivi discriminatori. La norma ha lo scopo di scongiurare reazioni a catena che provochino il diffondersi di idee violente fondate sulla superiorità o sull’odio razziale.
Se si incita a commettere violenze per motivi razziali, etnici o religiosi, invece, il reato è punito con la reclusione da 6 mesi a quattro anni. Scrivere commenti o post sui social network in cui si invitano gli altri a commettere violenze per motivi razziali, etnici o religiosi integra questo delitto.
Si tratta di reati di pericolo concreto e procedibili d’ufficio; ciò significa che non occorre che la violenza sia commessa ma che vi sia il pericolo di diffusione concreta dell’odio e della realizzazione di piani criminali fondati sulla discriminazione. L’incitamento all’odio deve essere tale da fare nascere e alimentare negli altri lo stimolo che spinge all’azione di discriminazione.
Il semplice fatto che vi sia la diffusa convinzione che determinate frasi di odio razziale o di discriminazione etniche siano ormai sdoganate da un contesto sociale sempre più intollerante verso le diversità e sempre più trincerate dietro una presunta superiorità culturale che si maschera da difesa dell’identità nazionale, non deve far credere che diffondere l’odio non sia più un reato e che dunque si possano tranquillamente pubblicare sui Social dei post che istigano alla violenza contro gli extracomunitari o contro gli omosessuali. Ben lo sanno tutti coloro che, per esempio, hanno attaccato con frasi fortemente offensive e di incitamento alla violenza contro l’ex Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini che sono stati querelati e condannati per questo.
Cosa fare se si è vittima di un reato online?
Quando si è “oggetto di attenzioni” da parte di un Hater particolarmente aggressivo è possibile agire per bloccarlo in Rete prima di agire, eventualmente, in via giudiziaria penale o civile.
Molto importante è la tutela extragiudiziale, cioè quella che si può ottenere tempestivamente fuori dalle aule di giustizia. Il caso più emblematico, che prendiamo come esempio, riguarda proprio la diffamazione online a mezzo Facebook. Come si è accennato, il reato sul Web viene considerato più grave di quello realizzato nella realtà: più precisamente, l’utilizzo di Internet integra l’ipotesi di diffamazione aggravata dall’uso di un mezzo di pubblicità, stante la particolare capacità divulgativa del mezzo telematico. Per prima cosa occorre denunciare il fatto, se possibile alla polizia postale, dotata delle attrezzature idonee a combattere i crimini commessi in Internet; oltre a ciò, ci si può attivare autonomamente e chiedere a facebook di rimuovere il contenuto lesivo. Per fare questo bisogna segnalare il soggetto diffamatore e la diffamazione avvenuta a facebook, tramite la stessa piattaforma. A tal fine, sarà sufficiente andare sul profilo di quest’ultimo, cliccare sulla freccetta verso il basso posta in corrispondenza del bottone “messaggio” e poi selezionare “Segnala/blocca”. Di lì, bisognerà spuntare la voce “invia una segnalazione”. Ricevuto l’avviso, facebook si accerterà del contenuto lesivo per bloccarlo o rimuoverlo del tutto.
Ove si agisca in via giudiziaria diventa, invece, indispensabile la conservazione delle prove, identificando univocamente il profilo, la pagina o il gruppo con i contenuti diffamatori. Per quanto sia importante, non è sufficiente prendere nota del nome del profilo o della pagina, neanche copiando l’indirizzo che compare nella barra degli indirizzi del browser. E’ invece necessario identificare il codice ID del profilo o della pagina da cui proviene la diffamazione che lo identifica univocamente. Per individuare tale codice è possibile utilizzare un sito come Find My FB ID, incollando l’indirizzo del profilo o della pagina nel campo di testo e premendo il pulsante “Find numeric ID”.
Una volta inserito l’indirizzo del profilo o della pagina Facebook dove è presente la diffamazione, si otterrà un numero da ricopiare o stampare, per “congelare” l’identificativo univoco che permetterà di ritrovare il profilo o pagina anche in caso di cambio nome o URL e, all’Autorità Giudiziaria, di richiedere a Facebook eventuali file di log o contenuti diffamatori. La raccolta delle prove per uso legale in caso di diffamazione su Facebook, partendo dal codice ID del profilo o della pagina, è infatti molto più efficace.
Se non è possibile utilizzare i siti online che identificano il Facebook ID, è consigliabile salvare la pagina Facebook o il profilo su cui è stata rilevata la diffamazione cliccando su “Salva con nome” nel browser utilizzato per la navigazione su Web. All’interno del codice della pagina, si troveranno due voci che contengono i codici ID ricercati: “pageID” (per le pagine Facebook) e “profile_id” (per i profili).
Una volta stabilito l’ User ID del proprietario del profilo da cui è avvenuta la diffamazione o il Page ID della pagina che contiene il testo diffamatorio, occorre congelare anche il post o il commento stesso per utilizzarlo poi come prova informatica della diffamazione. Sulla pagina o sul profilo da cui è provenuta la diffamazione, occorre identificare il post su cui è contenuta la diffamazione in modo da utilizzarla come prova in Tribunale e cliccare sulla data sotto il nome del profilo o della pagina. Per identificare un commento specifico come prova di una diffamazione, si clicca sulla data e dopo sotto il commento stesso, dopo il link “Mi Piace”, si otterrà l’apertura del post in una nuova pagina con il commento in evidenza copiando l’indirizzo che compare nella barra delle URL del browser, si potrà ottenere l’identificativo univoco del commento diffamatorio.
Conclusioni
In conclusione si può affermare che il fenomeno Haters presenta due potenziali risvolti. Gran parte di essi sono ascrivibili al solo contesto online e possono essere considerati come sostanzialmente innocui, anche quando di fatto scatenano reazioni negative negli altri, ma rimangono sostanzialmente privi di effetti nel “mondo reale” delle relazioni. Per questi casi vale la strategia riassunta dalla nota locuzione don’t feed the troll (11); se l’hater non viene provocato, lo si ignora e i destinatari delle offese non rispondono ai suoi attacchi, egli tende ad annoiarsi e ad abbandonare il contesto online dove sta cercando di creare confusione per cercarne un altro più reattivo.
D’altro canto, la relazione tra i comportamenti Haters e i tratti di personalità antisociali mette in luce che, in alcuni casi, comportamenti insistenti di trolling e hating possono essere indice di intenzioni dannose, antisociali e fisicamente aggressive che rispecchiano personalità disturbate o sociopatiche. In questi ultimi casi, il comportamento online costituisce effettivamente il riflesso di reali problemi e rischi relazionali, la radice di questi è da ricercarsi nelle disposizioni caratteriali e morali dei singoli individui, sostanzialmente indipendente dall’utilizzo delle tecnologie; di conseguenza vanno sempre contrastati con decisione utilizzando le armi che, come si è visto, vengono offerte dalla stessa Rete o dall’Ordinamento giuridico.
Contro il fenomeno degli Haters è partita in Italia la campagna “odiare ti costa”, un’iniziativa lanciata dall’associazione Tlon assieme allo studio legale Wildside di Bologna, per perseguire in sede civile gli atteggiamenti da cyberbullo, leone da tastiera o troll che spesso portano a insulti gratuiti, minacce o auguri di morte sotto alcuni post. Un gruppo di avvocati, filosofi, comunicatori, investigatori e informatici forensi raccoglieranno le segnalazioni inviate all’indirizzo email odiareticosta@gmail.com da chi è stato diffamato, offeso o minacciato sui social per valutare eventuali azioni legali contro gli Haters (alla data del 2 agosto 2019 sono già state raccolte più di ventiquattromila segnalazioni).
Anche a Torino ci si è mossi contro l’incitamento all’odio con l’applicazione “Controlodio”, la mappa che permette di monitorare quotidianamente la quantità di discorsi di incitamento all’odio in lingua italiana pubblicati su Twitter, attraverso una raccolta dati. Il progetto è realizzato dall’Associazione Acmos in collaborazione con l’Università di Torino e l’Università di Bari e finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed ha un funzionamento molto semplice: un algoritmo fa una selezione dei tweet attraverso l’utilizzo di parole chiave rivolte a particolari fasce di persone e, attraverso una machine learning, individua i tweet che rappresentano un vero e proprio incitamento all’odio. La mappa mostra una serie di visualizzazioni interattive che riportano il numero dei discorsi dai contenuti critici pubblicati su Twitter. Attraverso una scala di colori che va da una tonalità di bianco (assenza di odio) ad una di rosso (forte presenza di odio), è possibile scoprire la quantità di hate speech in Italia ed in ogni regione. Il progetto vuole farsi promotore di una maggior sensibilizzazione della cittadinanza, in un’ottica positiva e costruttiva.
In definitiva ciò che sembra essere essenziale in ogni interazione in Rete sono l’educazione ed il rispetto per le idee degli altri; in tal senso sarebbe opportuno utilizzare il decalogo previsto nel “manifesto della comunicazione non ostile” sia in via preventiva che successiva a fenomeni non gravi di hate speech. Si tratta di una carta che “elenca dieci principi di stile utili a migliorare lo stile e il comportamento di chi sta in Rete. Il Manifesto della comunicazione non ostile è un impegno di responsabilità condivisa. Vuole favorire comportamenti rispettosi e civili e vuole che la Rete sia un luogo accogliente e sicuro per tutti”:
- “Virtuale è reale: dico o scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
- Si è ciò che si comunica: le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
- Le parole danno forma al pensiero: mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.
- Prima di parlare bisogna ascoltare: nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
- Le parole sono un ponte: scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
- Le parole hanno conseguenze: so che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
- Condividere è una responsabilità: condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.
- Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare: non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
- Gli insulti non sono argomenti: non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
- Anche il silenzio comunica: quando la scelta migliore è tacere, taccio”(12).
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note
1 Cfr. G. Motta, la devianza nell’era digitale tra sociologia e diritto, Agorà & C., Lugano, 2014.
2 Cfr. C. L. Kujath, Facebook and MySpace: complement or substitute for face-to-face interaction? Pubblicato nella rivista “Cyberpsychology, Behavior and Social Networking”, 2011 Jan-Feb;14 Issue1-2, p. 75-78.
3 A. L. Gonzales J. T. Hancock, Mirror, Mirror on my Facebook Wall: Effects of Exposure to Facebook on Self-Esteem pubblicato su “CyberPsychology, Behavior & Social Networking”, Jan/Feb2011, Vol. 14 Issue 1/2, p79-83.
4 Cfr. l’articolo di J. Suler, Cyber psichology and Behavior, 7, 321-326, 2004.
5 Cfr. l’articolo di Buckels, Trapnell e Paulhus, Trolls just want to have fun. Personality and Individual Differences, 67, 97–102, 2014.
6 Cfr. l’articolo di Craker e March, The dark side of Facebook: The Dark Tetrad, negative social potency, and trolling behaviours.Personality and Individual Differences,102, 79-84, 2016.
7 Cfr. Zimbardo P. G. l’effetto lucifero: cattivi si diventa?, Raffaello Cortina ed., Milano, 2008.
8 Cfr. Cass. pen. Sez. I, 11 luglio 2014, n. 37596.
9 Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 2 gennaio 2019, n. 61.
10 Cfr. l’accordo raggiunto tra la Commissione Ue e i principali intermediari di servizi internet (Microsoft, Facebook, Twitter e Youtube; successivamente, Instagram, Google+, Snapchat e Dailymotion), con cui è stato elaborato un codice di condotta finalizzato a contrastare le condotte di hate speech.
11 in italiano: “non dar da mangiare al troll”
12 Cfr. https://paroleostili.it/manifesto/
Ritengo preziosa questa riflessione non solo per gli aspetti di studio ed informazione, ma anche perché offre concreti strumenti di difesa a coloro che subiscono attacchi da haters e trolls.
Non si tratta, peraltro, solo di un supporto individuale, ma anche e soprattutto di un invito ad essere protagonisti in una battaglia civile che sola può garantire quel che di usa chiamare “democrazia ” come civiltà prima e più che come “rappresentanza politica”.
Chi, come me, frequenta i militanti di un partito politico che è stato spesso vittima di fakes sa che è forte la tentazione di rispondere all’odio con la stessa moneta, senza capire che il problema è ben altro.
La riflessione del dott.Motta aiuta a capirlo.