Populismo e democrazia

di Giuseppe Motta

Il populismo è un concetto frequentemente evocato nei dibattiti politici spesso in modo distorto o mal interpretato, senza una comprensione adeguata del suo reale significato. Una definizione semplificata lo identifica come un fenomeno politico che suddivide la società in due gruppi omogenei e moralmente opposti: da un lato, il popolo “virtuoso”, dall’altro le élite di potere “corrotte” e “cattive” e si caratterizza per l’appello diretto al popolo, bypassando le istituzioni tradizionali, e per una retorica semplificata, incentrata su temi identitari, nazionalisti o anti-establishment..

Tale definizione, pur corretta, è però piuttosto semplicistica in quanto in realtà il populismo è un fenomeno storico complesso che si è evoluto parallelamente ai cambiamenti sociali e alle innovazioni nelle tecniche comunicative, influenzando la politica in tutte le epoche. In questo contesto, con l’emergere del Web 2.0, ha avuto un impatto determinante nel trasformare la scena politica contemporanea, fornendogli nuovi strumenti e modalità di diffusione e favorendo l’emergere di una imprevedibilità elettorale che, fino all’inizio del XXI secolo, era pressoché assente. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale (AI) tali problemi si sono accentuati al punto da rendere il concetto di democrazia sempre più sfuggente e pericoloso.

L’interazione tra l’IA e il populismo è considerata una delle minacce più rilevanti dagli analisti contemporanei, poiché l’IA può essere utilizzata per amplificare fenomeni di disinformazione e manipolazione dell’informazione. In particolare, è possibile sfruttare tali tecnologie per modellare narrazioni distorte che rispecchino i pregiudizi e le preferenze di specifici segmenti dell’elettorato, influenzandone così la percezione della realtà. Inoltre, le avanzate capacità dell’IA nel generare modelli linguistici complessi rendono possibile imitare lo stile comunicativo di singoli individui o gruppi sociali, aprendo la strada a nuove modalità di propaganda politica su larga scala.

L’intermediazione digitale e l’IA hanno permesso la creazione di un “popolo” virtuale e virtuoso, un’entità costruita attraverso tecnologie digitali, che non ha una forma concreta, ma che offre una base per incanalare l’indignazione verso le élite accusate di impoverirlo e di sfruttarlo. Tale costruzione virtuale, utilizzata con la mediazione dell’IA, diventa lo strumento d’elezione per i leader populisti, che ne indirizzano la rabbia verso obiettivi e nemici selezionati.

Ma qual è la reale natura del concetto di “popolo” evocato dai leader populisti? Le diverse manifestazioni del concetto di popolo sono molteplici e non riconducibili a una definizione unitaria. Ad esempio, il demos 1 degli antichi greci si distingue nettamente dal populus2 dei romani. Allo stesso modo, il “We the People” degli Stati Uniti non coincide con la concezione di sovranità popolare intesa dalle tradizioni politiche europee3. Inoltre, il termine “popolo” può essere impiegato in modo neutro, come sinonimo di popolazione o gente, o con un significato politico più circoscritto, nel senso dell’insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato tale da essere titolari della sovranità. Per questo motivo, Max Weber considerava il termine problematico, utilizzandolo esclusivamente per riferirsi a una massa che partecipa al processo elettorale al solo scopo di legittimare il sistema, piuttosto che come un attore attivo e decisionale nella sfera politica quotidiana. L’intervento del popolo nella politica, in questa accezione, è sempre mediato da istituzioni, normative e dai cd. “corpi intermedi”, e non è mai diretto.

L’ambiguità del concetto di popolo è forse oggi più evidente che in passato anche se le dinamiche che osserviamo richiamano fortemente quelle del Novecento, non tanto in termini di offerta populista quanto come espressione di una domanda demagogica e antipolitica. Si tratta della richiesta di una funzione simbolica da parte del leader, che, tramite una legittimazione plebiscitaria, si faccia carico delle necessità reali della popolazione, acquisendo potere anche oltre o al di sopra delle norme costituzionali.

Nel populismo, il concetto di “popolo” viene idealizzato come un’entità organica, definita dalla storia e dalla tradizione, o come un soggetto collettivo capace di esprimere, senza filtri, una volontà generale unitaria. Il popolo è percepito come detentore di soluzioni dirette e intuitive ai problemi complessi della modernità, ridotti a dinamiche semplificate e immediatamente accessibili.

Di conseguenza si accompagna a una spinta a ricondurre la sovranità entro i confini dello Stato-nazione, identificato come unico contesto in cui è possibile riconoscere un corpo popolare omogeneo e unitario. Questa visione alimenta un’insofferenza verso le istituzioni sovranazionali e i loro meccanismi di mediazione, percepiti come penalizzanti per gli interessi nazionali e popolari, spesso in nome di un presunto svantaggio competitivo o di una perdita di autonomia decisionale. Inoltre manifesta una diffusa insoddisfazione verso le procedure della democrazia rappresentativa, giudicate lente, inefficaci e incapaci di intercettarne la volontà autentica, privilegiando il ricorso a strumenti di democrazia diretta o enfatizzando il ruolo di leader carismatici, considerati interpreti privilegiati del volere collettivo e ridimensionando le dinamiche istituzionali tradizionali.

In tale contesto, chiunque eserciti funzioni non direttamente riconducibili alla volontà popolare rischia di essere delegittimato o osteggiato. Questo vale per i magistrati, le burocrazie neutre e tecnocratiche, gli organi di controllo e coloro che operano nell’informazione, da sempre considerati strumenti privilegiati di autocorrezione della democrazia, i quali vengono percepiti invece come distanti o antagonisti rispetto all’interesse popolare, a causa della loro indipendenza strutturale e operativa. I populisti, infatti, considerano antidemocratico qualsiasi controllo sul potere del governo eletto dal popolo; con ciò dimenticando che esistono una serie di diritti, in Italia previsti dalla Costituzione, che non sono soggetti a limitazioni o a revisione (ad esempio i cd. Diritti inviolabili dell’uomo ed i principi fondamentali di cui alla prima parte della Costituzione e il principio della forma repubblicana e della indivisibilità della repubblica agli artt. 139 e 5).

Ciò che definisce un sistema “democratico” è fondamentalmente il fatto che il Governo eletto non debba avere un’autorità illimitata e che il sistema deve possedere dei meccanismi che correggano gli errori del “Centro”, quei “meccanismi di autocorrezione” che controllano l’uso del potere del Governo eletto o che, quanto meno, ne costituiscano una sorta di coscienza critica. La democrazia presuppone dunque che tutti siano fallibili compreso chi ha vinto le elezioni con il voto della maggioranza. Le elezioni, infatti, non sono un metodo per “scoprire la verità” su come si governa lo Stato semmai servono a mantenere l’ordine sulle diverse idee delle persone, stabilendo ciò che la maggioranza considera “una verità” e non rivelando “la Verità assoluta”. Ovviamente in una democrazia la maggioranza ha tutto il diritto di prendere le decisioni più importanti anche commettendo errori epocali, ma deve sempre proteggere il diritto delle minoranze di lottare democraticamente per le proprie idee sostenendole e diffondendole oltre che accettare quei meccanismi di autocorrezione che giovano a tutti (i giudici, i giornalisti, le istituzioni accademiche, i sindacati, ecc.). La struttura democratica “deve essere complicata” ed è caratterizzata da un dialogo continuo con numerosi partecipanti che, spesso, parlano in contemporanea sovrapponendosi. La semplificazione è tipica dei totalitarismi dove c’è un leader che stabilisce in modo incontrovertibile ciò che è verità e ciò che non lo è senza alcun limite o controllo.

Come si è detto nella democrazia il popolo è considerato la fonte di legittimazione del potere politico. Dall’estremizzazione di questo postulato i populisti ricavano il principio per cui il leader legittimato dal popolo, della cui volontà si fa interprete, deve avere un potere assoluto con la palese contraddizione derivante dal fatto che fondano “la ricerca totalitaria di un potere illimitato su un principio democratico apparentemente impeccabile4. Si gioca su un sillogismo che solo in apparenza è logico e cioè i leader populisti sostengono di rappresentare il “popolo”, poiché in democrazia è il popolo che detiene il potere, ne consegue che chi ne interpreta la volontà ha il potere assoluto. In tal senso il popolo sarebbe un “corpo mistico” unificato, che possiede un’unica volontà, di cui si fa interprete il leader. Viene negato il principio per cui nella società – anche tra coloro che si identificano in un partito politico – possa esserci una diversità di opinioni o di gruppi di interesse che giustifica il dibattito, anche interno ai partiti, che è poi l’essenza della democrazia.

Il popolo, in questa visione è dunque l’unica fonte legittima, non solo dell’autorità politica, ma di “ogni autorità”. Qualsiasi istituzione che derivi la propria autorità da qualcosa di diverso della volontà del popolo è per definizione antidemocratica.

Quanto siano reali queste preoccupazioni, lo vediamo ogni giorno in relazione ai meccanismi di autocorrezione che vengono quotidianamente attaccati in quest’ottica populista: ad esempio, la magistratura, se giudica in modo non gradito, è perché fa solo l’interesse dell’opposizione mentre non può e non deve contraddire con le proprie decisioni le scelte di Governo che sono “legittimate dal popolo” anche quando queste siano in contrasto con le leggi o i principi costituzionali. Allora si propongono una serie di iniziative legislative volte a rendere inoffensivo il potere giudiziario che contrasta quello del “popolo” (separazione delle carriere, sottrazione di competenze, ecc). Quando anche la stampa e i media sono “di parte” non possono permettersi con le loro domande o inchieste di mettere in dubbio l’operato di un potere politico che viene dalla “volontà popolare”, da ciò la definizione di “giornalai” per alimentare il disprezzo verso la categoria e il rifiuto di sottoporsi alle domande scomode di media che, a loro avviso, “attaccano” la volontà del popolo. Le istituzioni accademiche sono “attrezzate” per mettere in discussione le “ideologie” dei Governi e, quindi, del popolo, di conseguenza devono essere ridimensionate magari prospettando l’ipotesi di consentire l’accesso alle forze di polizia negli atenei senza il consenso del Rettore in caso di manifestazioni anti governative5. I sindacati sono agguerriti contro il governo per il solo scopo di mettere in difficoltà i provvedimenti “voluti dal popolo” e quindi vengono additati come “sabotatori” del sistema, da ridimensionare con l’istituto della precettazione quando vengono indetti scioperi “scomodi”.

Quando le soluzioni prospettate per far “trionfare la volontà del popolo” non sono sufficienti c’è sempre la soluzione finale che toglie legittimazione ad ogni meccanismo di correzione della democrazia: “il complotto”, parola che viene regolarmente utilizzata quando i normali mezzi della dialettica politica non sono più in grado di giustificare comportamenti politici in contraddizione con quanto in precedenza attribuito alla volontà del popolo. Se, ad esempio, un Ministro non riesce a gestire una serie di problemi del proprio ministero, magari per una miope politica di programmazione di interventi strutturali, in assenza di giustificazioni valide propone la solita teoria del complotto, Non si tratta di incapacità politica e programmatoria ma di un complotto dell’opposizione mirata ad attaccare la volontà del popolo per ottenere un potere ovviamente non legittimato dal popolo ed il caso vuole che, casualmente, immediatamente dopo l’evocazione del complotto succedano fatti che mostrano delle “prove inequivocabili” dello stesso. Oppure se un ministro viene rinviato a giudizio e, in precedenza, il partito politico di cui fa parte, chiedeva le dimissioni in casi analoghi per membri di altri partiti, ecco allora che rispunta la teoria del complotto dei giudici contro il Governo che non fa altro che la volontà del popolo per cui, mentre per gli avversari politici le mancate dimissioni erano una vergogna, per se stessi non sono dovute essendo oggetto di un complotto. Ci si è limitati ad esempi presi dalla cronaca più recente ma è chiaro che il concetto è valido anche per situazioni analoghe verificatesi con precedenti governi “populisti”.

Da sempre, inoltre, i populisti hanno battuto su concetti che hanno una forte presa sul cittadino medio perchè danno la sensazione di affrontare e risolvere alcune paure legate alla sicurezza personale e dei propri cari. Il populismo penale, infatti, nel contesto italiano, amplifica e valorizza alcune criticità preesistenti nel nostro ordinamento penale. A Tali criticità, spesso create ad arte mediante un forte martellamento mediatico che crea paure, i populisti trovano soluzioni di forte impatto psicologico ma di scarsi risultati concreti. Tra queste, si evidenziano: l’idea che l’inasprimento delle pene edittali costituisca una soluzione necessaria e sufficiente per affrontare i problemi di deterrenza e prevenzione; la tendenza del legislatore a formulare norme incriminatrici vaghe e indeterminate, utilizzandole come strumenti di comunicazione simbolica o propagandistica; la diffidenza nei confronti della discrezionalità fisiologica del giudice, percepita come fonte di incertezza. Inoltre, si osserva una legittimazione progressiva della violenza privata ed istituzionale, attraverso il tentativo di introduzione, nell’ambito del diritto, di pratiche violente, politicamente giustificate o presentate come soluzioni praticabili per affrontare questioni complesse. Un esempio, per tutti, è stato l’allargamento dei confini di applicazione dell’istituto della legittima difesa, approvato dopo una continua campagna mediatica con cui si mostravano continuamente attacchi alla libertà personale di semplici cittadini e le conseguenze giudiziarie nel caso di una reazione degli stessi, con un ministro che inneggiava alla morte di un piccolo delinquente che a suo dire “non ci mancherà affatto” ed attribuendo alla vita umana un valore inversamente proporzionale al posizionamento sociale. In altri casi, invece, si è auspicato un intervento sul corpo del Reo, violando ogni diritto umano costituzionalmente tutelato (ad esempio la castrazione chimica).

Nonostante ciò, è innegabile che i partiti populisti rispondano a un disagio sociale autentico. Gli elettori che vi si rivolgono sono spesso motivati da ragioni di malcontento reale, e non si limitano a rispondere in maniera emotiva. Il nodo centrale risiede, dunque, nel deficit rappresentativo che caratterizza la democrazia contemporanea, incapace di soddisfare adeguatamente le aspettative e i bisogni di ampie frange della popolazione.

Il populismo attuale è infatti alimentato da una serie di fattori complessi e interconnessi, che riflettono sia cambiamenti socio-economici che trasformazioni politiche e culturali. Tra gli elementi principali che contribuiscono alla sua diffusione, possiamo identificare i seguenti:

  1. la crisi economica: il susseguirsi di fallimenti e chiusure di imprese nei settori produttivo, commerciale e finanziario ha evidenziato che l’economia globalizzata non è sempre e comunque un gioco cooperativo dal quale tutti traggono vantaggi, ma un’aspra competizione che riserva ai perdenti – a volte intere regioni e settori produttivi – un presente ed un futuro di declino e di marginalizzazione. In definitiva la crisi economico-finanziaria ha finito con lo svolgere il “ruolo di catalizzatore dei tanti motivi di insoddisfazione, da tempo latenti, nei confronti delle politiche liberiste e degli effetti della globalizzazione soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione … e le reazioni in vari Paesi hanno portato all’affermarsi di movimenti e partiti di matrice populista6.

  2. Alla crisi economica si collega la crescita delle disuguaglianze sociali: la crisi economica successiva al 2008 è stata determinata da un insieme di pratiche finanziarie ad alto rischio, dalla carenza di un’adeguata regolamentazione e dall’interconnessione dei mercati globali, che hanno amplificato gli effetti negativi dello shock iniziale. Tuttavia, le istituzioni dell’Eurozona non hanno affrontato la crisi come un fallimento del sistema finanziario, ma hanno adottato un approccio focalizzato sulla disciplina fiscale degli Stati membri. Questo ha portato all’imposizione di politiche di austerità e alla contrazione del welfare state, contribuendo a un aumento delle disuguaglianze sociali.

    In ambito europeo, il dibattito si è spostato dalla crisi del capitalismo finanziario alla narrazione secondo cui alcuni Paesi avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità, identificandoli come la causa principale della crisi economica nell’UE. In realtà, tali Paesi avevano destinato decine di miliardi di fondi pubblici al salvataggio delle istituzioni bancarie, tuttavia, invece di attuare una riforma strutturale del sistema finanziario, si è intervenuti riformando il welfare, con l’introduzione di misure di austerità e normative che hanno aumentato la precarietà del lavoro e delle pensioni e, di conseguenza, le disuguaglianze sociali7.

  3. Il fenomeno migratorio: in questo contesto, l’aumento dei flussi migratori è stato percepito dalle fasce sociali più vulnerabili come una minaccia multidimensionale: economica, sociale, demografica e culturale. Tale percezione non si è manifestata tanto in relazione a una presunta competizione lavorativa, spesso priva di fondamento, quanto piuttosto nell’ambito dell’accesso ai servizi sociali, delle politiche di sostegno per le fasce meno abbienti, della concentrazione di popolazioni straniere in specifiche aree urbane e dell’impatto sui modelli tradizionali di vita (ad esempio l’accesso alle case popolari o al reddito di disoccupazione o di cittadinanza da parte di extra comunitari).

    In assenza di una politica credibile e tangibile di integrazione dei migranti già presenti sul territorio nazionale e di una strategia strutturata per la gestione dei flussi migratori, questa percezione di minaccia rischia di delegittimare qualsiasi progetto di accoglienza, favorendo reazioni di rigetto sociale e alimentando fenomeni come la xenofobia e il razzismo.

Tutto ciò ha prodotto una crisi della rappresentanza politica, con il crescente distacco tra i partiti tradizionali e le esigenze della popolazione che ha alimentato una percezione di inefficacia delle istituzioni democratiche. Molti elettori avvertono che le élite politiche non rispondono adeguatamente alle loro necessità, creando quel vuoto che il populismo si propone di colmare. A questo si aggiunge l’effetto abnorme delle piattaforme online e dei social media che ne hanno amplificato la diffusione, consentendo ai leader populisti di raggiungere direttamente il pubblico senza il filtro dei media tradizionali. I social media, in particolare, favoriscono la polarizzazione e la diffusione di messaggi emotivi, spesso basati su retoriche semplificatorie  o su fake news che alimentano appunto l’opposizione tra “popolo” ed “élite”.

La disillusione verso le istituzioni politiche, economiche e giuridiche ha portato i cittadini a considerarle corrotte e incapaci di risolvere i problemi concreti. I partiti populisti, sfruttando questo sentimento, si presentano come l’alternativa “pulita” e “autentica” alle istituzioni tradizionali, promettendo di restituire il potere al popolo. La soluzione prospettata è quella della necessità del leader forte. I leader populisti infatti assumono una figura carismatica e si presentano come gli unici in grado di interpretare e risolvere i bisogni del popolo. Questo tipo di leadership rafforza il legame diretto tra il leader e la sua base elettorale, bypassando, come si è detto, le tradizionali forme di mediazione istituzionale.

Il populismo in definitiva rappresenta il risultato delle difficoltà strutturali della democrazia liberale nell’affrontare una delle questioni centrali della contemporaneità: l’insicurezza degli individui. Tale limite genera un’eredità di delusione e fallimento che spinge la società verso una ricerca urgente di nuova rappresentanza o mobilitazione, nel tentativo di costruire un orizzonte alternativo. Tuttavia, l’analisi del populismo risulta complessa per diverse ragioni: da un lato, esso non viene preso pienamente sul serio né riconosciuto come fenomeno dotato di dignità e autonomia; dall’altro, è spesso ridotto a una manifestazione di ignoranza o come retaggio di un passato “fascista”, percepito in modo marginale e contingente. Questo atteggiamento, in particolare all’interno della cultura politica di sinistra, ha ostacolato un confronto dialettico che tentasse di comprendere ed affrontare il fenomeno populista, anche a causa di un’impostazione progressista che ha trascurato il legame tra libertà e autorità, trattandoli come concetti separati e attribuendo il discorso sulla libertà esclusivamente alla propria tradizione culturale mentre ha ridotto il concetto di autorità a quello, più propriamente negativo, di autoritarismo.

Il mondo occidentale sembra aver intrapreso una preoccupante deriva populista, che rischia di compromettere profondamente i valori fondamentali conquistati attraverso un lungo e doloroso percorso storico segnato da regimi totalitari, conflitti devastanti e attacchi al tessuto democratico, sia interni che esterni. Si potrebbe interpretare questa fase come una crisi sistemica, in cui le strutture sociali e istituzionali, giunte a un apice di sviluppo civile, mostrano segni di disgregazione interna, alimentando un progressivo deterioramento. La speranza risiede nella possibilità che tale fenomeno sia transitorio, derivante da una visione politica miope, incapace di considerare il peso del passato e le esigenze del futuro, focalizzandosi unicamente sull’immediato. Tuttavia, è cruciale ricordare che una governance lungimirante non si limita a inseguire il consenso contingente, ma lavora per il progresso sostenibile delle generazioni a venire. Occorre vigilare affinché non si riproducano le condizioni che, nel secolo scorso, trasformarono un populismo dilagante in una spirale distruttiva culminata in due conflitti mondiali, le cui lezioni non devono mai essere dimenticate.

Giuseppe Motta

populismo e democrazia

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NOTE

1il termine greco si riferisce al popolo, inteso come l’insieme dei cittadini liberi che partecipano direttamente alla vita politica. In particolare, ad Atene, il demos era la base della democrazia diretta, dove i cittadini si riunivano in assemblee per prendere decisioni politiche.

2Il concetto romano di populus si riferisce a un insieme più ampio, che comprendeva non solo i cittadini liberi (come nel caso del demos) ma anche le strutture politiche e sociali che definivano il potere a Roma. Il populus aveva un significato più istituzionale e giuridico e includeva la cittadinanza e il sistema di governo rappresentativo e istituzionale di Roma.

3entrambi i concetti parlano della centralità del popolo nel sistema politico, ma mentre “We the People” è un’affermazione legale e simbolica di legittimità del governo, quello di “Sovranità appartiene al popolo” si rifà principalmente alla teoria politica della sovranità popolare, che significa che il potere supremo di governo risiede nel popolo, e che nessuna autorità (ad esempio monarchia o dittatura) può esercitare il potere senza il consenso del popolo.

4Y. N. Harari, Nexus, 2024, Giunti, Milano, pag. 188.

5Tale principio, radicato in tutte le democrazie, si basa sulla tutela dell’autonomia universitaria, un valore storicamente radicato nella tradizione accademica e sancito in molte democrazie come garanzia della libertà di ricerca, insegnamento e discussione all’interno delle istituzioni universitarie

6M. Clarich, in Populismo, sovranismo e Stato regolatore:verso il tramonto di un modello? Su Rivista della Regolazione dei Mercati, n. 1/2018.

7Tale situazione era stata “predetta” da Luciano Gallino in Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2001, pag. 109

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