ESISTE UN DIRITTO ALL’ODIO IN RETE?

                                                                                                             di Giuseppe Motta

1. Premessa

Premetto che questo articolo vuole essere solo una provocazione culturale, perché pone in risalto alcune contraddizioni tra diritto ed etica che non sono facili da dirimere. Desidero quindi che venga recepito come uno stimolo al dibattito e non come un’analisi che porta ad una soluzione del problema. D’altra parte, si sa, chi tenta di fare cultura deve suscitare dubbi e domande e non dare certezze, queste ultime dovrebbero spettare alla scienza. Forse…

I pregiudizi, i conflitti sociali, i sentimenti e le espressioni che ne rappresentano la manifestazione esistono da sempre. L’odio online non è una novità ma è profondamente radicato nel background storico-culturale dell’umanità, dunque, ben prima dell’origine di Internet, anche se le nuove tecnologie hanno portato nuovi aspetti di particolare rilevanza e criticità.

Internet, grazie alle sue caratteristiche tecniche, ha permesso il superamento dei confini nazionali e l’abbattimento delle barriere del mondo fisico. Al tempo stesso, ha rappresentato un terreno fertile per i cosiddetti haters, che hanno sfruttato le potenzialità di tale strumento per diffondere le proprie idee estremiste e/o offensive con effetti molto più gravi[i].

In generale l’odio è un sentimento multiforme e mutevole nelle sue manifestazioni in relazione ai contesti in cui si esplica ed ai soggetti che ne sono colpiti. L’emergenza dei flussi migratori provenienti dai paesi in cui sono in corso cruente guerre civili e attività terroristiche ha riproposto le espressioni d’odio razziste e quelle fondate su motivi religiosi focalizzandosi, per lo più, sugli estremismi, sull’identificazione tra confessioni religiose e terrorismo, e sulla difficile convivenza sociale, attraverso il meccanismo psicologico dell’attribuzione di colpa, mediante il quale “si attribuisce alla vittima la colpa per il danno che subisce. Se si pensa che la vittima si è in qualche modo cercata il Male, che viene invece visto come una punizione, allora ecco che il Male inflitto sembra giustificato[ii]. Basti pensare a come l’Olocausto e gli stermini praticati in Ruanda e a Srebrenica fossero caratterizzati e anticipati da espressioni d’odio su larga scala fomentate dai rispettivi leader politici e militari, come se gli avversari meritassero le atrocità che avrebbero subito.

Appare evidente che, quando l’odio è finalizzato all’offesa, o a preparare il campo ad azioni riprovevoli quale, ad esempio, l’incitamento alla discriminazione, ci troviamo in presenza di atteggiamenti eticamente e, spesso, giuridicamente condannabili ma quando, invece, l’odio in Rete non ha fini delittuosi ma si risolve in una modalità di manifestazione del pensiero – anche se deprecabile – fino a che punto è censurabile? Ci sono infatti alcune forme espressive d’odio che non costituiscono “incitamento alla discriminazione”. Alcuni esempi potrebbero chiarire meglio il concetto: la “blasfemia”, per quanto odiosa, può essere soggetta a censura anche se non è penalmente rilevante? Allo stesso modo, sono accettabili divieti ad affermazioni di “odio contro il regime”? Chi nega l’Olocausto come fatto storico, senza con questo auspicarlo[iii], oppure tutte le “Opinioni storicamente erronee” e le “interpretazioni scorrette di eventi di cronaca o del passato” possono essere soggette a proibizioni di legge? Chi è solito commentare post politici sui social con frasi di odio verso l’uno o l’altro politico o verso chi segue determinate ideologie manifesta liberamente il suo pensiero o dovrebbe essere sanzionato?

Per poter affrontare questo delicatissimo argomento e senza pretendere di essere esaustivi, occorre preliminarmente fare alcune considerazioni giuridiche sia di carattere generale sul diritto alla libera manifestazione del pensiero, che, più specifiche, sul “diritto ad odiare” quale estrinsecazione di un libero pensiero.

  1. Il diritto di manifestazione del pensiero

In un paese democratico la libertà di manifestazione del pensiero è sacra. In Italia tale diritto è sancito dall’art. 21 della Costituzione tra i diritti fondamentali e immodificabili[iv]. Infatti, l’art. 21 rientra, secondo la Corte Costituzionale, tra i “diritti inviolabili dell’uomo” di cui all’art. 2 Cost., con la conseguenza che la Repubblica ha il dovere di garantirne la tutela e difenderla sia dalle pubbliche autorità che dai consociati anche in considerazione della insopprimibilità della stessa con legge di riforma costituzionale.

Anche in ambito europeo ed internazionale tale diritto ha avuto accesso nella relativa normativa. In particolare, l’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo[v], il Regolamento UE 11 marzo 2014, 235, par. 11[vi] e l’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani[vii], prevedono tutti, quale diritto inalienabile e incomprimibile della persona umana appunto il diritto alla libera manifestazione del pensiero in tutte le sue forme.

In altri termini, con particolare riguardo al diritto dell’Unione europea, si può dire che gli Stati si sono muniti di uno strumento comune di protezione dei diritti umani, articolato su un duplice livello: l’affermazione solenne e il riconoscimento di tale libertà e la formulazione di una serie di limitazioni che rispondono alle garanzie tipiche dello Stato liberale, in particolare:

  1. la previsione di una possibile compressione che abbia fonte legislativa;
  2. il rispetto del criterio di proporzionalità tra i beni giuridici in conflitto;
  3. la compressione del diritto deve essere posta a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti.

I poteri che scaturiscono dall’esercizio di questo diritto sono caratterizzati dall’essere una necessità dell’ordinamento, oltre che un bisogno dell’individuo, perché sono espressione della partecipazione di ogni cittadino alla vita dello Stato, presentando quindi una indiscutibile “valenza sociale”.

Tali poteri però sono spesso contraddittori, in quanto caratterizzati nello stesso tempo, da un lato da una libertà tendenzialmente assoluta e, da un altro lato da limiti altrettanto stringenti. Infatti, se è vero che la tutela disposta in Italia dall’art. 21 Cost. sia tendenzialmente illimitata, è altrettanto vero che “il concetto di limite è insito nel concetto di diritto. Nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile[viii]. La norma costituzionale, infatti, stabilisce il limite esplicito del buon costume (concetto per sua natura generico e adattabile all’evolversi dei tempi e, dunque, un concetto pericoloso) ed altri, previsti da diverse norme nell’ordinamento giuridico (si pensi a quella che punisce la diffamazione), che incorporano dei limiti “impliciti” all’esercizio della libertà e che, anche se non espressi nell’art. 21 Cost., devono comunque trovare fondamento in dati testuali della Carta costituzionale diversi da tale articolo.

La prima forma di manifestazione del pensiero a cui si ritiene comunemente abbia fatto riferimento la Costituzione è il “diritto all’informazione” nelle diverse rappresentazioni della libertà di informare e di essere informati. il “diritto all’informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondamentali relativi alla forma di Stato delineata dalla nostra Costituzione, i quali esigono che la democrazia si basi su una opinione pubblica che possa formarsi liberamente e che sia in grado di svilupparsi attraverso la partecipazione di tutti alla formazione della volontà generale. Il “diritto all’informazione” deve pertanto essere contraddistinto dalle seguenti peculiarità:

  1. dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze affinché il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti. Corollario di questa esigenza è quello per cui deve esistere un vincolo al Legislatore che impedisca la formazione di posizioni dominanti e di favorire l’accesso al sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse;
  2. dall’obiettività e dall’imparzialità dei dati forniti, nel senso, quanto meno, di tendenza all’obiettività ed imparzialità che, com’è noto, è scopo impossibile da perseguire tout court, perché nessun essere umano può coscientemente astrarsi dal proprio apparato ideologico e di pensiero;
  3. dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell’attività di informazione;
  4. dal rispetto della dignità umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico dei minori

Il diritto ad essere informati invece si estrinseca nelle due forme più specifiche del “diritto ad informarsi” e di quello, inteso in senso stretto, di “essere informati”. Il primo caso si identifica nel diritto del soggetto di ricevere informazioni o, più in generale, tutte quelle notizie diffuse dai vari mezzi di comunicazione. La Corte Costituzionale chiarisce che si è in presenza di un “interesse generale all’informazione”, che, pur non essendo un vero e proprio diritto, è ugualmente tutelato dall’art. 21 della Costituzione. Un interesse che, nella realtà contemporanea, assume sempre maggiore importanza, in presenza di un mezzo rapido, immediato e spesso incontrollabile quale è il Web. Un ulteriore aspetto della libertà di informarsi può rinvenirsi nel diritto di accesso alle fonti, il quale ha trovato una prima generale e compiuta disciplina con la legge 7 agosto 1990, n. 241, recante norme sul procedimento amministrativo.

Il diritto ad essere informati, inteso in senso stretto, rappresenta un aspetto del tutto autonomo della libertà di informazione, che si manifesta nel generale diritto di qualsiasi persona di ottenere determinate informazioni da chi fornisce le notizie stesse. Anche questo diritto troverebbe il proprio fondamento costituzionale nell’art. 21 Cost., quale norma posta a tutela, sia del “lato attivo” della libertà di informare, quanto del “profilo passivo”, garantendo l’esigenza di pervenire ad una informazione corretta e completa. In altri termini, vi sarebbe un vero e proprio rapporto giuridicamente rilevante di comunicazione meritevole di tutela, tanto del lato attivo, quanto di quello passivo.

La libertà di espressione, nel senso letterale del termine è speculare al diritto all’informazione e, nella forma definita del free speech e del free market place of ideas, trova, in particolar modo con l’avvento del Web 2.0[ix], un’evidente problematicità nel confrontarsi sia con le infinite possibilità offerte dalla Rete di interagire sui Social da parte di tutti, che con la creazione e l’utilizzo delle cosiddette post verità[x].

La questione diventa piuttosto complessa dal punto di vista giuridico quando nella libertà di espressione si tenta di inserire la tendenza all’hate spreech, il fenomeno dei cosiddetti “odiatori in Rete”.

L’orientamento europeo, a questo proposito è abbastanza chiaro nel senso della limitazione eccezionale della libertà di manifestazione del pensiero solo “qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza[xi], deve cioè rappresentare un rischio effettivo per interessi di carattere generale o diritti altrui altrettanto rilevanti, che è poi il medesimo orientamento della Legislazione italiana.

In generale la dottrina e la giurisprudenza italiane più accreditate ritengono che discorsi d’odio – poiché́ in grado di negare il valore stesso della persona così come garantito agli artt. 2 e 3 Cost. – non rientrino nell’ambito di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, la quale non può̀ spingersi sino a negare i principi fondamentali e inviolabili del nostro ordinamento.

Per ciò che attiene al razzismo, in particolare, l’art. 604-bis del codice penale, originariamente previsto dall’articolo 3 della legge n. 654/1975[xii] ed ora rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, inserito nella Sezione I-bis, Capo III del Titolo XII del Libro II c.p., che disciplina i Delitti contro l’eguaglianza (il legislatore ha coì consacrato il bene giuridico della pari dignità̀ a fronte della sempre maggiore rilevanza del fenomeno discriminatorio) punisce qualsiasi condotta di propaganda fondata sulla superiorità̀ o sull’odio razziale, nonché̀ l’istigazione e la propaganda di fatti o attività̀ atte a provocare violenza per motivi etnici, razziali o religiosi e vieta anche “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, prevedendo un autonomo reato più̀ grave nel caso in cui la propaganda si fondi sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità̀ e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale. In questo caso il problema affrontato dalla norma non è tanto l’espressione di odio in quanto tale, bensì il fatto che da tale espressione possa ricavarsi un incitamento alla discriminazione o alla violenza.

Allo stesso modo, l’espressione di odio viene sanzionata penalmente se costituisce offesa all’onore o alla reputazione della persona a cui è indirizzata. La Corte Costituzionale ha chiarito, a tal proposito, che la previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero non integra una tutela incondizionata e illimitata della libertà di manifestazione del pensiero, giacché, anzi, a questa sono posti limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione. […] E tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione) …”[xiii].

In definitiva, quindi, dal complesso quadro di fonti normative sopra delineato, emerge con chiarezza che tra i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, nel bilanciamento con altri diritti fondamentali della persona, assume un particolare rilievo il rispetto della dignità̀ umana ed il divieto di ogni discriminazione, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona. La libertà di manifestazione del pensiero non include, pertanto, discorsi ostili che incitino alla discriminazione e alla violenza (vietati a vari livelli dall’ordinamento interno e sovranazionale).

  1. Diritto a odiare in Rete quale libertà di manifestazione del pensiero?

Il diritto a odiare, ad avere un “nemico”, a combatterlo con ogni mezzo lecito, è insito nel nostro essere umani; i sentimenti complessi – come l’odio, l’invidia, l’innamoramento, la paura – sono caratteristici della nostra specie. Tentare di eliminarli, oltre che andare contro natura, nega la libertà di essere se stessi.

Bisognerebbe porsi una domanda che riguarda la società che vorremmo: meglio una società nella quale nell’ottica del politicamente corretto si privi qualcuno della libertà di parola o meglio una società nella quale per non rischiare di privare nessuno della libertà di parola si accetta il rischio che odio, razzismo e violenza siano presenti nel mondo virtuale così come sono presenti nella società reale?

Senza dubbio è un interrogativo a cui è necessario rispondere con onestà intellettuale e nella consapevolezza che nessuna soluzione sia, in assoluto, giusta o sbagliata, davanti a una realtà globale e complessa rappresentata dalla società contemporanea e, in particolare, se rapportata al mondo virtuale e teoricamente senza confini del Web. Il rischio che si sta correndo in questo momento storico è, al contrario (e paradossalmente nell’era del venir meno delle ideologie forti), quello di avere delle certezze ideologiche inattaccabili le quali conducono al pericolo molto realistico che lo stesso dibattito che miri a risolvere il problema dell’odio sul Web si trasformi esso stesso in un’occasione di produzione di odio. Chi segue in maniera critica i social avrà certamente notato che chi invita gli altri alla correttezza spesso finisce per scadere nella polemica e nell’ostilità aperta.

L’inadeguatezza nello sviluppo di una capacità critica, la totale rinuncia all’apporto dialettico del dialogo aperto, la mancanza di un’attività analitica del pensiero, irrigidito su pregiudizi facili da coltivare, rendono molto complesso dare una risposta all’interrogativo che ci si è posti: libertà assoluta o limite alla libertà a tutela degli altri?

In un mondo idealizzato, dove si presupponga che ogni cittadino riesca a gestire con umiltà ed intelligenza la propria libertà e i propri sentimenti, la risposta non può che tendere verso la libertà assoluta che comprenda anche la libertà di odiare. Se (si tratta evidentemente di esempi, lontani dal mio reale modo di pensare) odio le nostre istituzioni che ritengo ingiuste e vessatorie devo poterlo affermare con forza, purché dal mio odio non scaturisca la volontà di sovvertire tali istituzioni con la violenza. Allo stesso modo devo avere la libertà di dire che amo la mia identità nazionale e “odio” chi invece vuole “contaminarla”, senza con ciò istigare alla discriminazione o all’odio verso una “razza” che ritengo diversa e che minacci la mia identità. Oppure se sono ateo o integralista posso mostrare di “odiare” alcune manifestazioni religiose, che magari ritengo fuori tempo o dettate dall’ipocrisia tanto da danneggiare la società che vorrei, senza con ciò discriminare chi abbia una Fede che non ho o che sia diversa dalla mia.

Si potrebbe anche dire che l’odio non può essere sanzionato in quanto tale, allo stesso modo per cui non si possono processare le intenzioni. Si può provare un odio più o meno ragionato e consapevole, ad esempio verso l’avversario politico, oppure un odio istintivo, irrazionale e inconsapevole. In entrambi i casi è un sentimento personale e, per ciò stesso, non può rilevare penalmente.

L’odio può essere anche una pulsione positiva e molto importante per la formazione della personalità: si è abbattuta la dittatura fascista grazie ad un odio “ragionato” che in un certo momento storico ha pervaso gli italiani, facendo vedere loro in negativo tutto quello che nel ventennio precedente avevano giudicato, spesso, positivamente, contribuendo ad una consapevolezza dell’importanza delle istituzioni democratiche. Allo stesso modo la caduta del muro di Berlino è stata frutto di un odio verso il comunismo sovietico che è giunto a maturazione nel tempo ed ha portato gli stessi cittadini a ribellarsi contro il potere dittatoriale. Questi esempi sono per certi versi paradossali perché dimostrano come, in qualche caso, anche l’odio violento può portare a conseguenze positive ed hanno sicuramente contribuito alla formazione della personalità di tutti noi rafforzando la nostra coscienza democratica.

Imparare a distinguere tra l’odio ragionato e quello istintivo, tentando di riconoscerne e controllarne le pulsioni che possano danneggiare gli altri, è fondamentale così come per altri sentimenti che spingono a provare tutto quello spettro di emozioni tra cui l’odio, la rabbia, la cattiveria ecc. che fanno inevitabilmente parte della vita dell’essere umano.

  4. Conclusioni

In conclusione, c’è un’ultima ragione che mi fa pensare che affidare solo alla legge penale la risposta ai discorsi di odio sia una strada sbagliata. Mi riferisco alla cosiddetta “trappola del vittimismo” di chi fa discorsi di odio.  Si sta, infatti, delineando una cultura del vittimismo, per cui essere parte di un gruppo oppresso offre una sorta di prestigio morale. Il vittimismo emerge quando gruppi sociali diversi fra loro vivono in relativa parità di diritti con un’autorità facilmente accessibile. Il risultato è lo svilupparsi della tendenza a caratterizzare ogni limite alla libertà di espressione come attacchi diretti ad interi gruppi e la possibilità di rivolgersi all’opinione pubblica tramite i social finisce con l’esasperare le cose.

In altri termini sto parlando di quell’eterogenesi di fini che trasforma gli omofobi, gli xenofobi, i negazionisti e i razzisti in martiri della libertà di pensiero e non è né col codice penale né con i giorni della memoria che si combatte la pulsione a ripetere gli orrori del passato o addirittura a farne l’apologia.

In tal senso si rischia una deriva conformista “a fin di bene” piena cioè di buone intenzioni, con il pericolo di inibire la libertà di espressione, orientandola verso la costruzione di una presunta etica comune, un senso comune che poi non è altro che omologazione del pensiero, perché conformarci è nella nostra natura a cui è difficile resistere.

Chi alle manifestazioni di odio fa seguire una violenza materiale, o un’istigazione alla discriminazione andrà certamente processato e punito severamente. Se, invece, gli haters si limitano solo all’uso violento della parola, sempre entro i limiti posti dalla diffamazione e dall’ingiuria, forse è meglio lasciare che, i tanti razzisti, omofobi, antisemiti, negazionisti, odianti l’altro da sé, si parlino addosso senza raccoglierne le provocazioni. Forse solo così prima o poi si “spegneranno” da soli.

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[i] Cfr I. Gagliardone, D. Gal, T. Alves, G. Martinez, 2015. Countering Online Hate Speech. Paris: UNESCO Publishing.

http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002332/233231e.pdf (ult. acc. 20/04/2020).

Inoltre, cfr G. Motta, https://www.giuseppemotta.it/chi-odia-in-rete-e-davvero-cattivo/

[ii] Cfr. G. Motta, breve discorso sul male, https://www.giuseppemotta.it/wp-content/uploads/2016/11/breve-discorso-sul-male.pdf, pag. 19 (ult. acc. 20/04/2020).

[iii] A questo proposito bisogna ricordare che il Legislatore italiano ha aggiunto – con la legge 116/2016 – un comma (3-bis) all’art. 3 della legge 654/1975, in base al quale comportamenti di discriminazione e odio, istigazione di reati a sfondo razziale già puniti con la legge del 1975 trovano un sanzione aggravata: “da due a sei anni di reclusione” “quando si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’ umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Presupposto della punibilità è che dal comportamento derivi un concreto pericolo di diffusione”.

[iv]Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria [cfr. art.111 c.1] nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

[v] “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”.

[vi]“Le libertà fondamentali di pensiero, coscienza e religione o credo, espressione, assemblea e associazione sono i prerequisiti del pluralismo politico, del processo democratico e di una società aperta. Il controllo democratico, la responsabilità a livello nazionale e la separazione dei poteri svolgono un ruolo chiave nel garantire l’indipendenza del potere giudiziario e lo stato di diritto, a loro volta necessari per una tutela reale dei diritti umani”.

[vii] “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e frontiera”.

[viii] Cfr. https://www.iusinitinere.it/la-liberta-di-espressione-aspetti-problematici-nellera-di-internet-25243#_ftn11 (ult. acc. 24/04/2020).

[ix] Per approfondire il concetto di Web 2.0 cfr. G. Motta, La devianza nell’era digitale tra sociologia e diritto, Agorà & CO, Lugano, 2014, pagg. 96 e segg.

[x] Su quest’ultimo argomento rinvio al mio articolo sul Web che analizza il fenomeno delle post verità: https://www.giuseppemotta.it/post-verita-fake-news-e-complotti/ (ult. acc. 30/04/2020)

[xi] Cfr., per tutte, decisione su ricorso n. 22350/13, del 7 marzo 2019 – Causa Sallusti contro Italia, par. 59 – https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20.wp (ult. acc. 25/04/2020).

[xii] vedasi nota 3

[xiii] Corte Costituzionale decisione n. 86/74.

1 pensiero su “ESISTE UN DIRITTO ALL’ODIO IN RETE?

  1. Complimenti Giuseppe!!
    Se mi permetti di aggiungere che la fenomenologia dell’odio è intimimamente connessa a quella dell’offesa allorché un individuo diciamo “A” offende un individio “B” nel momento in cui egli è in grado di dimostrare con gli atti e con le parole di avere in dispregio ciò cui l’individuo “B” atttribuisce invece un grande valore, cioè uno dei valori su cui “B” orienta tutta la propria vita; ad esempio il valore dell’affetto familiare per un padre che ami relamente i propri figli; il valore della libertà per chi l’abbia conquistata attraverso unalunga e dura lotta; il valore del bello per l’artista; il valore della parola data; ecc. Intanto, l’individuo offeso comprende invero, senza difficoltà, se il disprezzo mostratogli dall’offensore è effettivo o no, se è dovuto a ignranza o a momentanea irritazione, ovvero è un disprezzo che impegna tutta la sua persona. L’offesa risulta poi tanto più grave quando è inaspettta. In questo caso l’individuo “B” si sente colpito in ciò che ha di più sacro, nella propria sincerità. Egli si accorge che “A” l’aveva ingannato, fingendo di condividere le sue stesse valutazioni, unicamente per sfruttare le sue capacità e il suo spirito di sacrificio; si accorge che aveva finto di essere coraggioso e amante della libertà, mentre era in realtà un ambizioso, un arrivista, un uomo di spirito grossolano e servile. Di fronte a sì dolorosa sorpresa scoppia nel suo animo, con potenza irresistibile, quel complesso di sentimenti e di passioni che suol denotarsi col nome di odio.
    Mentre nel rapporto di amicizia l’amico tende a formare con l’amico un’unità di ordine superiore all’individuo, oltrepassando la limitatezza di ciascuno dei due, nell’odio invece l’individuo offeso cerca di elevare tra sè e la persona odiata una barriera insuperabile, totale, assoluta. Egli non vuole avere più nulla in comune con lui.
    Infine, il vincolo di amicizia non implica l’identità dei fini, per la realizzazione dei quali operano i dui amici. Una cosa sola si richiede a questo riguardo: che l’insieme dei fini propostasi dall’uno goda, nel suo complesso, la stima anche dell’altro.

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