Coronavirus: nulla sarà più come prima?

  

di Giuseppe Motta

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Introduzione

Tranquilli tutto sarà esattamente come prima. L’emergenza con la sua naturale sospensione dei normali rapporti sociali verrà superata nell’ambito di una riproposizione dell’ordine precedente, ritenuto normale.

Quello che sarà, invece, terribilmente diverso sarà il “durante”, il periodo cioè in cui è indispensabile convivere con la “nuova peste” e ciò per due ragioni fondamentali.

La prima perché il virus rimette in gioco la nostra realtà in quanto le novità introdotte dall’emergenza, incidono nei rapporti con gli altri, che erano già in crisi. Questa crisi viene adesso accentua da nuove criticità, per la forzata sospensione delle normali aspettative verso gli altri per timore del contagio, con ciò provocando una rottura traumatica della struttura di micro-relazioni che costruiscono la quotidianità di ognuno. La “pandemia”, ripropone quell’ordine biologico contraddetto nella società post-moderna dal soggettivismo individualizzato; per cui la società, patria di quell’individualizzazione che fa sentire ogni essere umano unico, insostituibile ed onnipotente, viene ricondotta nell’alveo dell’uniformità biologica in cui volenti o nolenti rientriamo tutti.

La seconda ragione ha origine in quella che è stata definita “infodemia”. Infatti, un contesto in cui la medicina ufficiale esalta il proprio sapere specialistico, lontano dalle conoscenze della gente comune, acquista credito il mondo dei “sentito dire”, che offre una facile risposta alle esigenze di sicurezza dell’immaginario di chi è malato o può ammalarsi. Come dice il filosofo Sergio Givone: “basta portarsi su quella soglia estrema dove tutto è possibile, il male come il bene, ed ecco che tutto viene rimesso in gioco[1], si apre così la strada a tutto ed al contrario di tutto, camminare sul confine è sempre più complicato, specie se la scienza stessa non ha spiegazioni univoche. Le false notizie rincorrono, e spesso sopravanzano, quelle vere, “l’informazione” non esiste più ed ognuno cerca il modo per esorcizzare le proprie paure cadendo vittima – oltre che della pandemia – anche dell’infodemia, non meno grave perché accresce il disagio psicologico e l’ansia.

Il volto della paura assume così una nuova prospettiva. Sembra crollare la capacità di rassicurazione che la scienza aveva promesso. La fiducia nella razionalità si sgretola di fronte al fallimento delle sue previsioni. L’incertezza riprende il sopravvento e il rischio esce dalla portata del ragionamento calcolato, mostrando l’incapacità dell’uomo di tenere sotto controllo le mille variabili che incidono su quel futuro di felicità e benessere che aveva immaginato. L’uomo diventa preda della “sindrome del Titanic”[2]: per cui si è imbarcato in una inaffondabile imbarcazione per navigare verso quel futuro di cui aveva creato i presupposti, ma non è stato in grado di prevedere e neanche di avvistare l’iceberg che affonderà la nave e ancor meno risulta essere in grado di affrontare il disastro. Il futuro, ieri promessa rassicurante contro le paure, oggi è percepito come minaccia, ignoto, incombente e quindi motivo di paura.

Ma in cosa consiste questa paura che blocca le nostre facoltà intellettive, tanto da riportarci ad un medio evo che oscura quella ragione tanto faticosamente conquistata con l’illuminismo?

  1. La paura

Tutte le emozioni di norma vengono fatte risalire alla sfera personale, all’interiorità, a qualcosa che appartiene ad ognuno di noi. La psicologia ha infatti studiato le emozioni dal punto di vista dell’individuo e delle conseguenze sul suo comportamento.

Per quanto riguarda la paura, in particolare, ci si è spesso soffermati ad analizzare i segnali corporei che invia, quali: il respiro affannoso, il battito accelerato, il tremito, l’intensa sudorazione, gli occhi sgranati, la tensione muscolare, la secchezza delle fauci, l’alterazione della voce, l’adrenalina in circolo e così via. La paura produce cambiamenti psicologici, la persona inizia a focalizzarsi esclusivamente su ciò che teme, preoccupandosi che il problema non abbia soluzione e sviluppa, nel tempo, un tipo di pensiero negativo verso se stessi e il mondo circostante, che percepisce come fonte di continue minacce. Ci si avvita in un circolo vizioso con i cambiamenti corporei, come ad esempio: dolori, senso di oppressione fisica, ecc., cosicché lo stress aumenta portando a un aumento del disagio e delle preoccupazioni, fattore che induce le persone a focalizzarsi sempre più su eventi che ritiene insolubili dimenticando quelli positivi. I cambiamenti psicologici inducono anche a modifiche dei comportamenti usuali che si innestano nel medesimo circolo vizioso aggravandone le conseguenze. L’ansia da paura porta ad esempio ad evitare situazioni di stress anche quello “benefico” o ad aumentare comportamenti dannosi per la salute (fumare di più, muoversi di meno); si tratta comunque di comportamenti che incidono anche sulla sfera sociale.

Dall’interiorità quindi si passa al sociale. Perché in realtà tutte le emozioni sono fenomeni fondamentalmente sociali: in primo luogo perché è proprio attraverso i rapporti sociali che si impara a manifestare le proprie emozioni. La capacità di dare un nome alle cose è socialmente appresa e condivisa, in quanto utilizzata per interagire con gli altri. Inoltre, le emozioni sono alla base di comportamenti collettivi che cambiano il nostro rapporto con gli altri e la stessa società in cui si vive. La paura è, tra le emozioni, quella che maggiormente si traduce in implicazioni sociali di rilievo e spesso una volta evocata non è più controllabile.

La paura, come si è chiarito, è, dal punto di vista psicologico, quella sensazione di pericolo che si avverte di fronte ad una minaccia vera o presunta tale che si ritiene non controllabile. Dal punto di vista sociologico, invece, la paura è un’azione sociale che nasce come risposta a una condizione percepita come rischiosa o pericolosa ed è quindi frutto di una determinata rappresentazione sociale che descrive come pericolosa una particolare situazione ma ne dà anche gli strumenti per tenerla sotto controllo[3].

Per comprendere meglio è utile inserire due concetti che sono strettamente collegati alla paura: il rischio e il pericolo: il primo si può definire come la potenziale fonte di danni che derivano da una specifica azione; il secondo, invece, come i danni che dipendono da elementi esterni non controllabili[4].

A titolo esemplificativo un pilota di formula uno conosce il rischio delle corse ad alta velocità e il danno che ne può scaturire ed è tecnicamente e fisicamente preparato per evitarlo ma se non è sufficientemente preparato l’azione da rischiosa diventa pericolosa perché non direttamente controllabile da chi la affronta. Il rischio è quindi un pericolo calcolato.

Una volta compresa tale differenza si comprende il senso delle “narrative di controllo”: Se il pericolo, infatti, è frutto di qualcosa che non si conosce, uno dei modi per ridurre la paura che ne deriva sono appunto le “narrative del controllo”. In questo caso anche i rituali assumono importanza, la gente tendenzialmente ricorrere ai rituali delle “narrative di controllo formali”, come protocolli, teorie della probabilità o procedure di emergenza, mentre attraverso le “narrative di controllo informali” le persone si rassicurano utilizzando simbologie e formule tipiche del mondo spirituale come ad esempio la preghiera o addirittura gli stereotipi e le modalità della scaramanzia. Più specificamente nel caso della pandemia da coronavirus si evidenziano rituali di rassicurazione tipici delle narrative di controllo formali, come la dichiarazione di alcuni infettivologi: “non è un’influenza devastante, curandola ci stiamo accorgendo che è simile a un’influenza con maggiori rischi di complicanze polmonari”, oppure analizzando le probabilità statistiche, dove risulta che meno del 3% dei contagiati muore. Mentre tra i rituali di rassicurazione tipici delle narrative di controllo informali, si sono creati gruppi virtuali di preghiera che garantiscono 24 ore continue di invocazioni a Dio affinché ci salvi dal virus, o maghi e ciarlatani che promettono rimedi miracolosi per evitare il contagio.

Ma quello che forse è l’elemento caratterizzante della sociologia della paura in questo momento storico è il ruolo dei Media. L’uomo vive in un mondo rappresentato dai Media che si innesta nell’esperienza quotidiana. I Media definiscono cos’è pericoloso e nello stesso tempo spiegano come affrontare il pericolo attraverso le narrative del controllo. L’esempio forse più illustre è quello del 1938, quando un racconto radiofonico eccessivamente realistico, messo in scena da Orson Welles, fece credere a milioni di radioascoltatori che gli Stati Uniti fossero stati invasi dai marziani; il racconto provocò scene di panico e disordini sociali. Ma ci sono molti altri esempi di paure collettive create dai Media: il “panico morale” per descrivere la paura collettiva ingiustificata costruita negli anni sessanta contro i gruppi giovanili dei mods e dei rockers quali soggetti pericolosi ed antisociali (uso di droghe, sesso e violenza), oppure negli anni ottanta la “sindrome del mondo cattivo”, ovvero la sensazione di essere vittime di violenza e la paura a camminare soli di notte, di cui soffrivano coloro che guardavano le fiction televisive poliziesche o film come “il giustiziere della notte”[5].

Gli effetti culturali della paura, invece, si possono intravvedere nella diffusione di un senso di instabilità che spesso induce alla ricerca di colpevoli più o meno immaginari, estranei alla società, siano essi le streghe del medio evo, le minoranze politiche, i terroristi, i migranti o, in tempi di coronavirus, la spasmodica ricerca del paziente zero che dovrebbe dimostrare che il virus, il nemico, viene dall’esterno e non è uno di noi. In definitiva la principale conseguenza collettiva della paura è la sospensione dei valori che si sono affermati nei periodi di stabilità sociale quali la tolleranza, l’apertura e la fiducia e che si trasformano in intransigenza, chiusura e diffidenza. Ma il vero problema che emerge non è l’avere paura di qualcosa, ma è la paura della paura, perché su di essa non è possibile intervenire in quanto frutto esclusivo della nostra percezione.

Ciò probabilmente è dovuto al fatto che oggi si parla molto di più della paura. Sembra che tutto nella vita si associ a una preoccupazione, che qualsiasi cosa rappresenti una minaccia. La stessa esperienza umana in sé è ormai vista come una fonte di minaccia; la sicurezza è diventata il valore più importante della nostra società, tanto che c’è una tendenza a medicalizzare tutti i problemi morali o esistenziali, che vengono riformulati in termini medici. Ormai si pensa al futuro in modo sempre più distopico e negativo. La nostra società vive “nel presente” e “del presente” sempre più distaccata dal passato e spaventata dal futuro. La paura è diventata, per la quasi totalità delle persone, la prospettiva culturale dominante. In politica è particolarmente evidente tale prospettiva ed è interessante vedere come l’unica cosa che lega destra e sinistra sia il fatto che entrambe le parti sfruttano la paura. per ottenere consensi. Non c’è una reale differenza tra i due approcci: la destra parla della paura dell’immigrazione come imbarbarimento culturale e minaccia alla purezza della razza e la sinistra della paura dell’estinzione umana causata dal pessimo uso della tecnologia a discapito dell’ecologia. Quello che è cambiato, in generale, è il modo di relazionarsi con il futuro: si è passati dal promuovere un messaggio di speranza, di trasformazione, di riforma, a un approccio conservativo fondato sul non rischiare e sul “meglio così perché può essere solo peggio”[6]. Anche la scienza viene vista con sospetto; l’idea che passa è che non ci si può fidare di essa, tutte le volte che si parla di argomenti scientifici quali: intelligenza artificiale, terapie genetiche, biotecnologie, la reazione è sempre quella di metterne in evidenza i possibili effetti collaterali e i potenziali sviluppi negativi, l’incredibile sviluppo del movimento no vax o il nuovo luddismo nei confronti dell’informatica che ruba il lavoro ne sono esempi classici.

  1. La paura ai tempi del coronavirus

Come si è visto, il rischio va inteso come valutazione probabilistica (prodotto tra la probabilità che l’evento si verifichi e gravità del potenziale danno). Tale valutazione probabilistica è influenzata dall’outrage, che sono quei fattori emotivi che influenzano la percezione del rischio e che riguardano sia la natura del rischio che la sua gestione. In quest’ottica il rischio sarebbe il prodotto tra il pericolo e l’outrage; di conseguenza se il rischio è volontario sembra più basso, se è imposto da altri o non si ha la possibilità di controllarlo viene percepito come maggiore[7]. È chiaro che la pandemia del COVID-19, non solo è involontaria ed incontrollabile dai singoli ma, quello che fa aumentare a dismisura la paura, è il fatto che appare incontrollabile anche dalle autorità e dalla scienza. La mancanza di conoscenza fa sì che l’unica cosa di cui si è certi è che tutti abbiano svantaggi, e la paura della morte incombe su tutti i contagiati (a prescindere dal relativamente basso tasso di letalità). La mancanza di fiducia in chi gestisce il rischio fa percepire il pericolo molto di più di quanto probabilmente non lo sia realmente. Le divergenze nel mondo scientifico in questa situazione di emergenza possono essere devastanti perché fanno venir meno quei fattori emotivi che influenzano positivamente la percezione del rischio, che, come si è visto sono: la volontarietà, la conoscenza e la fiducia.

L’attenzione per l’evoluzione della pandemia non è neanche lontanamente paragonabile a quella dedicata alle malattie non trasmissibili, in particolare, ad esempio, a quelle provocate dall’inquinamento ambientale, dal tabacco e dall’alcool. Il primo elemento che distingue le malattie trasmissibili da quelle non trasmissibili è che la paura per malattie con meccanismo deterministico per cui il semplice contatto determina l’infezione è ben diversa dalla paura per malattie con meccanismo probabilistico, in cui a una esposizione (a inquinamento) o al consumo (alcool e tabacco) corrisponde un aumento della probabilità di ammalarsi. In altri termini, le malattie infettive hanno un’unica causa, mentre le malattie non trasmissibili hanno molteplici cause da sole non necessarie né sufficienti. La paura per il COVID-19 non si sottrae a queste regole ed è quindi insita nelle sue caratteristiche e non è gestibile, ancor peggio se con richiami generici a stare tranquilli, ad essa si aggiunge, inoltre, la preoccupazione pubblica per la gestione di un’emergenza così complessa.

In nome del dovere di informare e del diritto di conoscenza, infatti, tutti gli organi di informazione e i social-media offrono un aggiornamento in tempo reale del numero dei contagiati, di quello dei decessi e dei cittadini in quarantena. In questo contesto ogni decesso aumenta la paura e lo smarrimento. L’eccesso di informazione, dunque, accresce l’outrage e di conseguenza il rischio e la conseguente percezione del pericolo, in un circolo vizioso che richiede sempre più informazione che a sua volta aumenta a dismisura la paura. Nessun confronto viene fatto poi con i decessi dovuti all’inquinamento dell’aria ed al consumo di alcool e tabacco, che provocano molti più decessi ma ai quali è data meno attenzione perché ritenuti dati aleatori e non riconducibili causalmente in modo immediato ai suddetti fattori di rischio, perché respirare un virus come SARS-CoV-2, evoca un timore diverso e maggiore rispetto a respirare una particella ultrafine carica di sostanze cancerogene.

Di tanto in tanto le società sono soggette a periodi di panico morale”, diceva nel 1972 Stanley Cohen[8]. Come si è visto, il concetto di “panico morale” sottolinea il ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione (stampa, telecomunicazioni, social network) nell’influenzare atti devianti, considerando questo fenomeno in grado di alterare i meccanismi della percezione della gente, generando una sorta di “profezia che si autoavvera” in grado di alimentare panico e conseguenze di più ampia portata. Nel caso del coronavirus vi è stata, infatti, l’ammissione di alcuni giornalisti sul ruolo dell’informazione nell’emergenza sanitaria per il Covid-19, che hanno contribuito a provocare il panico. Lo stesso Presidente del Consiglio italiano ha dichiarato che: “E’ il momento di abbassare i toni, dobbiamo fermare il panico”. In effetti si è compreso e si è intervenuti in ritardo per arginare le conseguenze della paura incontrollata diffusa dai media in Italia e nel mondo.

  1. Cosa ci lascerà il coronavirus?

Il sistema sanitario nazionale è stato travolto dagli eventi e il personale medico e le strutture sanitarie stanno lottando per gestire gli enormi numeri dell’epidemia: si stanno creando meccanismi di triage preospedalieri con strutture tensioattive per permettere una prima distinzione tra malati da ammettere al pronto soccorso e malati a rischio coronavirus su cui effettuare il tampone. Si sta cercando con enormi sacrifici di assicurare che tutte le persone contagiate dal coronavirus abbiano accesso a cure mediche adeguate. Contenere l’epidemia è importante, ma lo sono anche la prevenzione e i trattamenti sanitari: ciò significa che il diritto alla salute dev’essere parte integrante della risposta all’epidemia. Le disposizioni normative gradualmente adottate dal Governo dovrebbero fornire risposte adeguate nell’arco di qualche settimana (come è successo in Cina). Le disposizioni sulla quarantena di chi è stato a contatto con un malato o con chi sia stato riscontrato positivo al coronavirus, così come le limitazioni ad uscire di casa per le sole ipotesi di: comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità e motivi di salute, pur limitando la libertà personale, garantita dalla Costituzione (art. 13) trova giustificazione nel corrispondente diritto fondamentale alla salute (art. 32) che verrebbe compromesso qualora non si proceda con la quarantena. Tali disposizioni sono state emanate con Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, che trovano giustificazione e fondamento nel Decreto Legge 23/02/2020, n. 6, ciò in quanto la libertà personale non può essere limitata da un provvedimento con valore regolamentare (qual è il DPCM) ma solo sulla base di una legge (art. 13, comma 2, della Costituzione).

La normativa in questione prevede anche il rafforzamento delle unità di terapia intensiva e la riapertura di strutture ospedaliere chiuse in seguito ai tagli alla sanità del decennio precedente, l’aiuto alle imprese in crisi e la tutela dei lavoratori colpiti dal crollo economico che consegue all’epidemia. l’assunzione di migliaia di medici ed infermieri. Tutto ciò ovviamente in deroga al bilancio dello Stato e quindi a debito. Di ciò si dovrà tener conto quando superata l’emergenza dovremo far fronte ad una situazione economica disastrosa che dovrà recuperare tale debito oltre che un crollo della produzione e dei consumi dovuti alle restrizioni per contrastare la diffusione del virus.

Un’altra importantissima conseguenza dell’espansione della pandemia che, per certi versi ha un risvolto positivo, è l’incremento dell’uso della tecnologia nel campo lavorativo e della scuola.

La scuola, in particolare, è stata chiusa il 5 marzo (al momento fino al 3 aprile ma la data sarà quasi certamente prorogata) e la chiusura è stata la prima linea di difesa adottata dal Governo contro la diffusione del coronavirus anche se non ha portato allo stop delle lezioni, che stanno continuando in remoto e con le diverse applicazioni suggerite dai Dirigenti scolastici. Tuttavia, l’emergenza ha messo in luce diversi problemi nell’organizzazione e nella gestione dell’attività didattica in un clima di autogestione lasciata all’iniziativa delle singole scuole con poche e vaghe direttive provenienti dal MIUR.

L’emergenza ha contribuito, volenti o nolenti, ad implementare l’uso degli strumenti tecnologici, in modo da consentire a studenti e insegnanti di continuare il programma scolastico in questa situazione problematica. Il primo problema riguarderebbe una mancata linea comune da parte tutti gli istituti, spesso non tecnologicamente in grado di gestire questa emergenza. Si procede quindi per tentativi, utilizzando piattaforme gratuite (WeSchool, Zoom, Meet.Google, ecc.) non sempre utilizzate al meglio o che si bloccano facilmente anche per mancanza di una connessione Internet stabile e veloce. L’uso di queste piattaforme, inoltre, crea anche un problema di privacy in relazione alla gestione dei dati sensibili degli studenti e degli insegnanti. Lo Stato, infatti, ha di fatto deciso di affidarsi a piattaforme private per gestire dati sensibili come quelli contenuti nei registri online e, adesso, a maggior ragione, le scuole utilizzano piattaforme gratuite della cui gestione dei dati sensibili si sa poco o nulla. Un problema evidente se si pensa che quello scolastico è uno dei settori di cui si riconosce l’importanza “pubblica”. Manca il controllo su una serie di dati sensibili: cosa gravissima, peraltro, in quanto la maggior parte degli alunni sono minori. Le scuole stanno rischiando moltissimo a mettere dati privati di studenti in mano ad aziende con pochissime o addirittura senza alcuna limitazione o garanzia.

Gli insegnanti spesso non sono tecnicamente all’altezza della situazione e sopperiscono con tanta buona volontà ed abnegazione, scontrandosi con i propri limiti e con gli ancora più evidenti problemi degli studenti, non tutti in grado di affrontare una lezione online per mancanza di mezzi o di una cultura informatica minima, accentuando sempre più quel gap culturale e, in questo caso anche tecnologico, tra le varie classi sociali, tra chi può permettersi i migliori strumenti tecnologici e chi invece non ha neanche il collegamento ad Internet a casa.

Non v’è dubbio che gli insegnanti stanno lavorando molto più di quanto non facciano normalmente, tra lezioni in videoconferenza (spesso scaglionate per consentire un maggiore controllo della classe telematica), preparazione delle lezioni, correzione dei compiti, riunioni “strategiche” tra gli insegnanti, riunioni con il dirigente scolastico, consigli di classe, interclasse ecc. (tutte attività che vengono regolarmente svolte in videoconferenza). Malgrado gli insegnanti abbiano ormai capito che quest’anno scolastico finirà in una sanatoria generale su tutto e che nessuno finirà i programmi decentemente, si stanno impegnando moltissimo e, dopo le professioni sanitarie e quelle relative alla sicurezza pubblica, quella dei docenti è forse la categoria che più ha risentito, da un punto di vista dell’impegno lavorativo, del dramma del coronavirus.

Il Governo, di fatto, ha chiuso le scuole senza spiegare come fare lezione via Internet. Ogni scuola deve arrangiarsi, dando in pasto dati di minorenni a privati e costringendo i docenti a improvvisare.

Tutto il settore pubblico, in generale, ha fatto dell’improvvisazione la linea guida contro il coronavirus, forse basandosi sul luogo comune che gli italiani sono bravissimi ad improvvisare e danno il meglio di sé in mancanza di regole. Negli uffici pubblici si cerca di sfruttare lo smart working “fai da te” nel senso che si resta a casa ma è sufficiente dare la propria disponibilità al telelavoro, autocertificando di avere le strutture idonee ed i requisiti minimi di sicurezza sul lavoro nello studio di casa. Mai come in questo momento una norma dello stato che tende ad agevolare il cd. “lavoro agile” ha avuto una così estesa “realizzazione…”. Almeno sulla carta.

Tutto ciò è iperamplificato da quella che abbiamo definito l’infodemia. Nella situazione che stiamo vivendo in questi giorni, i social stanno svolgendo un ruolo cruciale nel processo di diffusione delle informazioni, ma, come aveva predetto in tempi non sospetti Umberto Eco, a salire sulla cattedra mediatica non sempre sono esperti e tecnici del settore, ma i cd. laureati “all’università della strada”, comuni cittadini totalmente ignoranti in materia che diffondono perle di sapere spesso erronee o pareri personali, più che verità scientifiche valide. Tutto questo non fa altro che alimentare in modo ingiustificato le paure e le ansie. Il cervello umano, infatti, è predisposto al contagio emotivo. Le emozioni vengono trasmesse attraverso i cosiddetti neuroni specchio, delle cellule nervose che permettono di entrare in empatia con gli altri e di assorbirne anche i malumori, la negatività, lo stress, la paura e persino il panico. Questo meccanismo è ancora più evidente in presenza di ansie causate da eventi sconosciuti o di cui si capisce poco la genesi e l’eziologia. Il caso del coronavirus è emblematico: l’utente medio dei social, infatti, non comprendendo le spiegazioni scientifiche è automaticamente attratto dalle semplificazioni, che gli rendono comprensibile un problema altrimenti oscuro; in questo contesto fanno presa tutte le fakes che ammantate di scientificità (“l’ha detto un medico…” “testimonianza reale di un infermiere…”, ecc.) diffondono false notizie che aggravano la situazione. In questo contesto inoltre trovano ampio risalto le teorie complottiste spesso divertenti perché molto grossolane, ma, a volte, pericolose perché contribuiscono ad aumentare l’ansia e la sfiducia negli organi ufficiali di Governo o scientifici, oppure inducono ad attività che aumentano il rischio: dal treno che trasporta il “COVID-19” che è deragliato (come se fosse normale trasportare la malattia – peraltro con il nome errato – piuttosto che il virus, in un carro cisterna), al laboratorio che ha creato un’arma batteriologica per combattere qualche altra nazione o l’intera economia mondiale; dal mangiare aglio, agrumi e cipolla per prevenire il virus al colore più scuro del sangue che sarebbe sintomo di contagio. A tal proposito la psicologia e la teoria dell’evoluzione hanno messo in evidenza la naturale predisposizione degli esseri umani al complottismo. La specie umana si è evoluta in un ambiente pericoloso, nel quale la tendenza a immaginare continuamente l’esistenza di pericoli nascosti o la capacità di intuire nessi causa-effetto poteva salvare la vita. Purtroppo questo meccanismo evolutivo tende a farci sospettare l’esistenza di complotti anche quando non ci sono, o a individuare nessi causali anche tra eventi tra loro scollegati. È su questo terreno fertile che le bufale prosperano, e purtroppo la loro diffusione è rapidissima, soprattutto perché spesso si condivide senza leggere e con estrema leggerezza[9].

Conclusioni

In conclusione, l’emergenza coronavirus, tra i problemi, le difficoltà ed i lutti, ci sta aiutando a rimettere al centro la persona e le sue relazioni; è questo il momento di assumere la solidarietà, come valore di base per la stessa convivenza civile della società, mettendo da parte gli allarmismi eccessivi, o, peggio, le strumentalizzazioni politiche.

Tuttavia, oltre agli eccessi sociali riscontrati, anche se non in misura preoccupante, quali la presa d’assalto dei supermercati e dei treni ed esempi di isterismo collettivo, si registrano dei tentativi di intrecciare nuove forme di socialità. Le scuole che, come abbiamo visto, organizzano lezioni, interrogazioni e verifiche online. Quelle Pubbliche Amministrazioni ed aziende che attraverso il telelavoro, recuperano la continuità lavorativa dei dipendenti. Le riunioni delle realtà associative, gruppi informali e di volontariato via Skype o altri strumenti collegati al Web. In altri termini ben venga l’uso degli strumenti della comunicazione a distanza per periodi straordinari e determinati, senza però perdere di vista gli itinerari che spingono alla socialità, che va comunque ripensata e aggiornata alla luce di questo nuovo evento emergenziale.

In questi giorni così difficili in cui la libertà di movimento viene limitata e le istituzioni si appellano al senso di responsabilità del singolo per il bene della collettività c’è una grande confusione che rispecchia il senso di spaesamento improvviso a cui ognuno è stato sottoposto. La quotidianità è stata interrotta, i ritmi della vita, i piccoli gesti rituali, la possibilità di immaginare il futuro sono stati messi in crisi. Il rincorrersi frenetico di disposizioni normative sempre più incisive sulla libertà personale, hanno drasticamente innalzato il livello di allarme di fronte a questa invisibile minaccia. Gli eventi corrono molto più velocemente della nostra capacità di pensarli ed interiorizzarli, di conseguenza ci si è ritrovati con le emozioni allo stadio primario: grezze, forti e nette; la confusione, la rabbia, la tristezza, la paura, l’angoscia, che, private della mediazione del pensiero, hanno portato a quei comportamenti apparentemente privi di fondamento logico ed assai dannosi per il diffondersi dell’epidemia. L’assaltare i treni in fuga verso casa, o i supermercati alla ricerca di cibo, radunarsi nelle piazze nel dispregio più totale delle ordinanze e del buon senso sono solo sintomi di un disagio a cui la psiche non era abituata e corrono il rischio di non essere compresi nella loro profonda natura affettiva della vita psichica.

Tutto questo per superare la paura, ma come fare in modo che diventi un’opportunità di crescita?

Questo virus sembra offrirci l’occasione di riscoprire i legami affettivi familiari, quanto gli altri siano importanti per noi, quanto il senso di onnipotenza che caratterizza l’uomo sia ben poca cosa nella realtà. Solo il rispetto, la solidarietà e l’unione degli intenti possono davvero aiutare questa umanità impaurita a sentirsi più viva ed ottimista per il futuro. Il virus ci ha ricordato una verità inconfutabile e cioè che siamo mortali e molto fragili e viviamo in un delicato equilibrio da rispettare e sostenere. Forse, l’esserci ricordati di essere fragili ed indifesi nei confronti della natura che pensavamo di poter dominare ci farà guardare, in un futuro che ci auguriamo prossimo, gli altri con occhi diversi. Occhi accoglienti verso chi fugge da guerre e miseria e malattie, verso chi è debole, come noi ci siamo dimostrati in questa occasione, ed appartiene alla fragilità cosmopolita dell’essere uomini.

Tutti abbiamo davvero bisogno degli altri, per ricordarci reciprocamente quanto l’umanità sia inscindibilmente legata e quanto l’amore verso gli altri sia l’antidoto migliore all’individualismo. Solo così l’uomo diventa davvero onnipotente.

Giuseppe Motta

[1] S. Givone, Metafisica della peste, Rizzoli, Milano, 2012, cit. da Rossano Buccioni su corriereadriatico.it del 11/02/2020.

[2] Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma, 2008, pagg. 23 e segg.

[3] Le cd. “narrative di controllo”. Emblematica è, a questo proposito, l’attuale situazione in relazione alla diffusione del COVID-19, per da un lato cui si è creata la psicosi da pandemia ma allo stesso tempo si danno le disposizioni per tenerla sotto controllo, o forse sarebbe meglio dire per tenere sotto controllo la paura che ne deriva.

[4] N. Luhmann Sociologia del rischio, Mondadori, Milano, 1996.

[5] Cfr. D. Bennato, Paura: un’emozione tra due secoli, su https://forward.recentiprogressi.it/numero-14/la-cultura-della-paura/, ult. acc. 17/03/2020.

[6] F. Furedi, How Fear Works: Culture of Fear in the Twenty-First Century, Bloomsbury Continuum, London, 2018.

[7] P. M. Sandman, Responding to Community Outrage: Strategies for Effective Risk Communication, American Industrial Hygiene Association, Fairfax VA, 1993. Pubblicato on line dall’autore sul sito: https://www.psandman.com/media/RespondingtoCommunityOutrage.pdf. Ult. acc. 17/03/2020.

[8] S. Cohen, Demoni popolari e panico morale. Media, devianza e sottoculture giovanili, Mimesis, Milano, 2019, (1^ ed. 1972).

[9] Sull’argomento il mio articolo: Post Verità, Fake News e… Complotti, su https://www.giuseppemotta.it/post-verita-fake-news-e-complotti/.

3 pensieri su “Coronavirus: nulla sarà più come prima?

  1. Ho letto con interesse ed attenzione l’approfondita analisi e disquisizione su una problematica che ha sconvolto l’ordine delle cose. L’analisi dettagliata della realtà, sotto molteplici aspetti, costituisce un momento di riflessione ma, nello stesso tempo, una presa di coscienza del limite dell’uomo nei confronti di una natura che sale in cattedra e detta le sue leggi! Ma l’analisi va oltre l’attuale disagio umano aprendo scenari di ampio respiro, quali il rispetto reciproco, la solidarietà, il bisogno di condivisione da cui potere ripartire e “ricominciare”! Modestamente, grazie!

  2. bel momento di riflessione. alcune brevissime considerazon: a) sui meccanismi di coordinamento normativo sarei curioso di vedere come sarà rispettata l’altra norma costituzionale ( art. 81) sul pareggio di bilancio; b) la necessaria cautela nei provvedimenti restrittivi della libertà è determinata proprio dalla contemperamento delle due fondamentali regole costituzionali (nell’articolo richiamate). Resta da capire se, e fino a che punto, un D.L. possa introdurre forzature costituzionali ovvero l’ingresso di scelte ( di rango cosituzionale) tra due o più opzioni ( sacrificio della libertà personale rispetto ad una emergenza sanitaria) oppure se non sia il caso di preventivamente richiamarsi alla norma prevista dall’art. 78 Cost.; c) Gravissimo è invece il problema che sorge con l’utilizzo di piattaforme digitli che assicurano a privati delle informazioni e dei dati davvero sensibili. Tale preoccupazione è ancora più evidente con l’uso di tali strumenti per vertici istituzionali tra i vari capi di stato.

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