Le relazioni tra linguaggio e pensiero nella didattica

Il linguaggio è un sistema di segni (suoni, parole, gesti, ecc.) che assumono un significato e sono finalizzati alla rappresentazione di un pensiero ed alla sua trasmissione. Il termine pensiero, invece, indica l’attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà esterna.

Il rapporto tra linguaggio e pensiero è un tema che ha suscitato un vivace dibattito all’interno delle varie scuole psicologiche. Gli interrogativi riguardano lo sviluppo e l’uso sia del pensiero che del linguaggio e l’eventuale priorità dell’uno rispetto all’altro. Lo scontro teorico si è avuto in particolare tra le correnti comportamentiste, cognitiviste e costruttiviste e la prevalenza dell’una sull’altra contribuisce a riconoscere regole differenti nelle varie fasi dell’apprendimento e, quindi, porta all’uso di metodologie didattiche notevolmente diverse. L’approccio di questo lavoro è rivolto ad analizzare brevemente tali teorie e le loro ricadute sulla didattica nella scuola.

Per i comportamentisti è fondamentale concentrare lo studio sul comportamento. L’idea di fondo, quindi, è che l’apprendimento, anche quello verbale, proviene dall’ambiente e non da fattori innati.

Il pensiero, in sostanza, coincide con il linguaggio. Skinner, che è stato il principale rappresentante del comportamentismo, era un fautore della teoria stimolo/risposta. Costruì la cosiddetta “Scatola di Skinner” dove effettuava esperimenti di condizionamento degli animali mediante la tecnica del rinforzo[1]. Un determinato comportamento, infatti, tende a ripetersi nel tempo se le conseguenze sono positive per chi lo pone in essere, mentre tende ad attenuarsi in caso contrario. Il “rinforzo” è appunto ciò che comporta un incremento del comportamento.

Negli anni ‘50, Chomsky creò una prima rottura con la teoria comportamentista, allora dominante, criticando Skinner. Secondo Chomsky era indispensabile ammettere che nell’uomo il linguaggio aveva una base innata, ma c’è una differenza tra “competenza” o “lingua interna” – ossia quel “sistema di conoscenza implicita su cui si basa la produzione e la comprensione degli enunciati di una lingua”[2] – ed “esecuzione”, ossia la produzione reale, l’uso effettivo della lingua in situazioni concrete.

Il cognitivismo di Chomsky infatti è nato come una reazione al comportamentismo dominante fino ad allora ed ha dato un contributo rilevante allo studio del pensiero e dei suoi rapporti con il linguaggio, analizzando i processi cognitivi in ambito multidisciplinare ed avendo ad oggetto lo studio della mente umana. Il cognitivismo pone l’accento sull’analisi dei processi conoscitivi, cioè sullo studio delle possibili forme di rappresentazione delle conoscenze. Nella ricerca didattica, i cognitivisti hanno tentato di individuare le strategie di ragionamento messe in atto dagli studenti per la costruzione dell’apprendimento e del sapere. L’idea di fondo delle scienze cognitive è che i processi mentali siano algoritmi, ossia processi di calcolo, effettivamente descrivibili e automatizzabili. In altri termini l’interesse dei cognitivisti è sempre stato rivolto all’individuazione di modelli, che sono una rappresentazione semplificata della realtà. In questo senso la teoria è avallata dalle neuroscienze che cercano di comprendere la connessione tra i meccanismi di funzionamento del sistema cervello-corpo e le competenze cognitive sociali[3].

Il modello cognitivista trova la sua giustificazione teorica nell’epistemologia genetica di Jean Piaget. Secondo lo psicologo, il linguaggio è un aspetto di una più ampia capacità simbolica, che influenza il passaggio dall’intelligenza senso-motoria all’intelligenza rappresentativa. Il pensiero, quindi, precede il linguaggio ed è autonomo rispetto ad esso, lo sviluppo del linguaggio dunque dipende dallo sviluppo delle strutture di pensiero. L’autore sostiene che, dai 2 ai 6/7 anni, il linguaggio del bambino può essere definito “egocentrico”, nel senso della tendenza del bambino a percepire, capire e interpretare il mondo dal proprio punto di vista. A questa fase segue quella del linguaggio socializzato, nella quale il bambino riesce a tener conto del punto di vista altrui. Condizione necessaria per il passaggio da un tipo di linguaggio all’altro è lo sviluppo delle strutture di pensiero. Il linguaggio è, di conseguenza, un modo per esprimere il pensiero e svolge una funzione ausiliaria nello sviluppo delle strutture cognitive in quanto consente al bambino di staccarsi dalla concretezza delle prime forme di pensiero[4].

Una prospettiva diversa da quella di Piaget è la teoria di Vygotsky, secondo cui pensiero e linguaggio sono in relazione dinamica. Il linguaggio è lo strumento psicologico più importante perché media tra il bambino e l’ambiente. La sua funzione è quella di attivare un contatto sociale e consente il passaggio dall’interpsichico all’intrapsichico. Inoltre, il linguaggio consente di organizzare le categorie di realtà, rappresentazione del passato e progettazione del futuro. Per lo psicologo russo, l’interiorizzazione del linguaggio è un passaggio evolutivo fondamentale che porta alla formazione delle funzioni psichiche superiori e ciò avviene già intorno ai 3 anni, quando il linguaggio interpersonale si scinde in un linguaggio socializzato con funzione comunicativa verso gli altri e in un linguaggio egocentrico che consente al bambino di avere un dialogo con se stesso che ne guida il pensiero e lo aiuta a risolvere problemi e pianificare le proprie azioni. Crescendo, poi, migliora la capacità di comunicazione verbale, interiorizza il linguaggio egocentrico e lo fa diventare il proprio linguaggio interiore, che permette al bambino di “pensare a parole”, cioè in silenzio. A differenza che in Piaget dove il linguaggio “diventa” sociale dopo la fase “egocentrica”, in Vygotskij, la mente del bambino è “per sua natura” sociale ed il linguaggio egocentrico rimane sempre lo strumento di quello interiore[5].

Jerome Bruner, pur condividendo le idee di Piaget, non concorda sul rapporto tra sviluppo del linguaggio e sviluppo del pensiero. Per lui l’acquisizione del linguaggio è, infatti, indispensabile per lo sviluppo mentale. Interiorizzando le strutture linguistiche, il bambino si costruisce la realtà, utilizzando degli schemi simbolici (la categorizzazione, la generalizzazione, la casualità ecc.) La struttura del pensiero, però, riflette quella del linguaggio esistente in una certa cultura: pertanto è influenzata da questa. La differenza fondamentale tra Bruner e Piaget sta, dunque, nel diverso peso dato alla cultura e all’educazione nello sviluppo.

Per Bruner i bambini, attraverso l’acquisizione di alcune strutture linguistiche, sono messi in condizione di rappresentarsi una situazione in modo indipendente da quello che vedono. Questa capacità è il problema centrale dello sviluppo cognitivo e trova nel linguaggio la sua manifestazione più evidente. Lo psicologo sostiene che nel corso dello sviluppo si succedono tre fasi caratterizzate da codici rappresentativi diversi. In una prima fase il bambino è capace di una rappresentazione attiva, cioè degli schemi di azione che si associano a determinati stimoli. Nella seconda fase il codice è quello iconico, dove sia il margine mentale che lo schema spaziale interno sono relativamente indipendenti ma sono ancora legati all’associazione tra stimoli esterni e sensazioni interne. Il terzo codice è, invece, quello della rappresentazione simbolica, costruito su schemi astratti, appresi dalla cultura del proprio gruppo sociale. Attraverso la rappresentazione simbolica si apprende a percepire il mondo in un certo modo, secondo schemi culturali e contingenti[6].

Dal cognitivismo si è sviluppata la corrente del costruttivismo che non considera l’essere umano un semplice elaboratore di informazioni, ma un vero e proprio “costruttore di significato”. L’ambiente non è solo un contenitore di dati fenomenici ma un insieme di simboli su cui si basano le esperienze e gli atti percettivi. L’oggetto di indagine non è più quindi la mera elaborazione di una realtà preesistente all’atto conoscitivo, bensì un processo di formazione della comprensione che dipende dal punto di vista di chi osserva[7].

La conoscenza sarebbe dunque il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto, è strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l’apprendimento e nasce dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale. Secondo i costruttivisti, creare un ambiente di apprendimento fondato su tale assunto pedagogico è molto più complesso che progettare una serie di interventi didattici di tipo tradizionale. Un modello d’insegnamento costruttivista promuove la facilitazione dell’apprendimento ed è centrato sullo scaffolding[8]; quelle strategie di sostegno e guida che aiutano lo studente a costruire la propria conoscenza; questo metodo inoltre ha la peculiarità di facilitare l’apprendimento significativo che consente di dare un senso alle conoscenze acquisite sviluppando il problem solving, il pensiero critico e trasformando le “conoscenze” in “competenze”; Il nuovo paradigma è, infatti, learner centered

In campo didattico il costruttivismo trova le sue radici in un incrocio transdisciplinare e si esprime nel valore riconosciuto alla sollecitazione di un pensiero narrativo, riflessivo e metacognitivo, con strumenti di osservazione e monitoraggio di tipo cognitivo ma anche emozionale-affettivo, come il “diario di bordo”, il portfolio, il dossier, l’utilizzo dell’immagine e delle audio registrazioni, le autobiografie, ecc..

Negli anni ’90 del secolo scorso, Gardner, partendo dalle teorie costruzioniste ma distaccandosene nei contenuti, elaborò la teoria delle nove forme di intelligenza umana. Egli affermò che per intelligenza non bisogna intendere solo la competenza logico-matematica, quella visivo-spaziale o linguistica, ma anche quelle: corporea-cinestetica, il talento musicale-ritmico, le capacità intrapersonali (comprendere se stessi e adattarsi in funzione di tali conoscenze) e interpersonali (percepire e distinguere gli umori, le intenzioni, le motivazioni e i sentimenti degli altri) e, infine, l’intelligenza naturalistica che è definita come la sensibilità dell’ambiente. Dopo aver a lungo studiato queste diverse forme dell’intelligenza sotto il profilo psicologico, fisiologico, clinico e antropologico, Gardner è giunto alla conclusione che esistono tratti comuni tra alcuni tipi di intelligenza e altri (per esempio tra intelligenza musicale ed intelligenza matematica), ma ogni tipo di intelligenza è in qualche modo autonoma dalle altre ed ha una sua rappresentazione neurologica. Ciò significa che le varie categorie hanno caratteristiche specifiche non sempre trasferibili ad altre e che una persona può essere più dotata in un tipo di intelligenza e meno di un altro, cosa di cui gli insegnanti devono tener conto nella individualizzazione della didattica[9].

Come si è evidenziato l’aderire ad una, piuttosto che ad un’altra delle teorie descritte, porta a delle notevoli conseguenze in campo pedagogico ed a questo punto si possono trarre delle conclusioni su quale sia quella che consente un miglior approccio didattico nella scuola contemporanea.

In quest’ottica la teoria comportamentista si caratterizza per una maggiore rigidità, gli obiettivi di apprendimento vengono stabiliti indipendentemente dagli allievi e procedono mediante dei meccanismi di rinforzo che si suppone siano efficienti per ogni allievo; l’elasticità si limita alla tipologia del rinforzo che può variare da individuo ad individuo. Il cognitivismo, invece, si concentra sui fondamenti dell’apprendimento. Essi sembrano presupporre che la conoscenza debba essere trasportata dentro gli allievi che devono elaborarla e farla propria. Il costruttivismo, infine, si basa sull’assunto che la conoscenza sia costruita dagli stessi allievi nel tentativo di dare un senso alle loro esperienze ricercandone il significato.

Ognuna di queste teorie ha dei pro e dei contro, poichè nessuna può essere considerata “giusta” o “sbagliata” “efficace” o “inefficace”, in quanto occorre inserirla nel contesto didattico in cui viene attuata.

Nella scuola italiana il comportamentismo non ha formalmente inciso (sostanzialmente invece ha rappresentato l’indirizzo più seguito dagli insegnanti) se non in alcune aree della pedagogia speciale (per studenti diversamente abili) in cui si è rivelato spesso molto proficuo; è possibile, infatti, ottenere risultati positivi attraverso l’attivazione di determinati comportamenti che sbloccano specifiche funzioni inibite dal deficit. Nell’autismo, ad esempio, le metodologie educative più efficaci sono il metodo Teacch e il metodo A.B.A., che si basano proprio su tecniche comportamentiste. I concetti chiave sono quelli di rinforzo, estinzione, controllo degli stimoli e generalizzazione. Il rinforzo è la conseguenza ad un comportamento che rafforza il comportamento stesso, aumentando la frequenza e la probabilità della sua comparsa. Può essere negativo, al fine di evitare un potenziale stimolo avversivo, o positivo, per ottenere attenzione o avere accesso ad una determinata attività[10].

Dall’applicazione del cognitivismo, invece, trae spunto in Italia la riforma della Legge 4 agosto 1977, n. 517, che ha introdotto il concetto di “individualizzazione” e di “programmazione”. Il primo mutua dalle teorie cognitiviste il concetto di individualità degli stili di apprendimento e l’attenzione ai processi di organizzazione logica della mente. La scuola diventa “ambiente di apprendimento” in cui ognuno possa raggiungere gli obiettivi comuni anche se con tempi e modalità individualizzate.

Il secondo concetto si fonda molto sull’applicazione delle tassonomie per cadenzare il ritmo e gli obiettivi del percorso didattico. Ciò in quanto ogni apprendimento va sempre dal semplice al complesso e la progressione dipende dalle strutture logiche della mente. Dalla programmazione dipende la “didattica per obiettivi” (il Mastery Learning: già in precedenza affermatosi nei paesi anglosassoni), l’obiettivo è quello di far sì che tutti gli allievi raggiungano il loro grado ottimale di apprendimento attraverso obiettivi intermedi per raggiungere i quali si predispongono: materiali strutturati ad hoc, tempi e verifiche.

Un riflesso della concezione costruttivista l’abbiamo in quei provvedimenti normativi e di indirizzo pedagogico quale, ad esempio, il regolamento sull’autonomia scolastica, il DPR 8 marzo 1999, n. 275, che riconosce il valore del contesto come variabile fondamentale dell’azione educativa o le Indicazioni nazionali dei vari gradi ed ordini di scuola, emanati da quasi tutti i governi successivi ed improntati ai contributi costruttivisti. Il problema è che una tale impostazione si è oggi affermata al massimo nei primi gradi dell’istruzione. Tutta la didattica dell’istruzione secondaria, viceversa, è rimasta spesso, specie nelle secondarie di secondo grado, estranea ai cambiamenti e ai contributi suggeriti dalle nuove teorie pedagogiche. La divisione dei saperi e, la selezione basata sull’esito dell’interrogazione o del compito rimane la direttrice pedagogica principale.

Nella sua teoria Gardner, infine, critica il concetto di intelligenza unitaria che non può misurarsi in maniera univoca in quanto essa si esprime in diversi fattori. Nei suoi studi, l’autore ha approfondito gli effetti di tale teoria sul processo educativo, favorendo il superamento degli stereotipi educativi e puntando sulla creatività, come strumento per l’educazione alla comprensione. In quest’ottica diventa logico aspettarsi risultati diversi da ogni singolo studente a seconda del tipo di intelligenza che viene stimolato e da quanto questa sia sviluppata in lui. Non esiste dunque un livello unitario di performance, ma una risposta di livello diversificato a seconda della tipologia e dell’ambito della prova. Ciò comporta che è sbagliato privilegiare l’una o l’altra forma di intelligenza nel lavoro scolastico, in quanto inibirebbe la libera crescita dello studente mettendone a rischio le potenzialità.

Ovviamente il campo della psicologia dell’educazione e della pedagogia non si esauriscono nelle considerazioni sin qui svolte, che rappresentano solo uno stimolo a sviluppare le argomentazioni trattate ed un richiamo all’importanza che hanno nelle scelte operative per chi opera nella scuola e, più in generale, nel campo educativo.

Maria Concetta Randazzo e Giuseppe Motta

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[1] B. J. Skinner, Scienza e comportamento, Franco Angeli, 1992 Milano.

[2] A.VV, 2003, Grammatica Insegnarla e impararla, ed. Guerra, Perugia, pag.235.

[3] Per approfondire il cognitivismo, cfr. R. Revlin, Psicologia cognitiva. Teoria e pratica, Zanichelli, Bologna 2014.

[4] J. Piaget, L’epistemologia genetica, ed. Studium, Roma, 2016.

[5] L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti, Milano, 2007.

[6] O. Liverta Sempio, Vygotskij, Piaget, Bruner, concezioni dello sviluppo, Raffaello Cortina, Milano, 1998.

[7] P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come fenomeno sociale, Il Mulino, Milano, 1997, gli stessi Vygotskij e Piaget e Bruner possono essere considerati in parte psicologi costruttivisti.

[8] Metodologia didattica che trae spunto dalla teoria, formulata da Vygotskij, della “zona di sviluppo prossimale”. In Vygotskij cit.

[9] H. Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Erickson, Trento, 2005.

[10] A. C. Najdowski, D. Granpeesheh, J. Tarbox, J. Kornack, Evidence-Based Treatment for Children with Autism, edito da Elsevier Science, 2009.

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